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26 Set, 2013

Donne salvate

Quando si comincerà a proteggere davvero le vittime finanziando in maniera adeguata i centri anti-violenza che da anni chiedono risorse per le proprie fondamentali attività? Quando si affronterà il problema della presa in carico psicologica degli uomini che maltrattano le donne? Quando si deciderà di introdurre nelle scuole un’educazione mirata a disinnescare comportamenti violenti e alla gestione dei conflitti? Problemi che il decreto legge non affronta.
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25 Set, 2013

Magma. Piazza delle politiche partecipate

Venerdì 4 ottobre, ore 17.00-22.00
CSOA La Strada
Via Francesco Passino, 24a – Roma (Garbatella)

Partecipa alla Piazza delle politiche partecipate, confronta la tua esperienza di Roma con quelle delle altre persone che aderiscono al percorso di Magma, arricchisci la tua visione con le visioni degli altri e delle altre, aiuta la comunità di Magma a individuare le priorità per migliorare la qualità della vita a Roma!

Invita chi pensi che – nei movimenti, nelle associazioni, nei partiti e nei movimenti – possa aiutare MAGMA, con la sua visione, le sue azioni, la sua voglia di cambiamento

24 Set, 2013

Mozione Officine ex-RSI di Casalbertone

Misure in favore della tutela occupazionale e della riconversione delle Officine ex-RSI di Casalbertone

Premesso che

– le Officine RSI (adibite alla manutenzione dei Treni notte, ex Wagon Lits) nel 2008 sono state acquistate dalla Barletta Srl che, nonostante le premesse di rilancio dell’attività lavorativa, non ha messo in campo alcuna attività in questo senso ma, al contrario, ha avviato un processo di dismissione dell’attività produttiva, ed intende realizzare una speculazione immobiliare sul territorio;

– alla cessazione delle attività dell’azienda un consistente gruppo tra i 33 operai delle Officine ex-RSI ha iniziato un percorso di studio, insieme a architetti, economisti, esperti del settore e attivisti per promuovere iniziative di rilancio dell’attività produttiva dell’area, puntando l’attenzione su progetti e servizi di pubblica utilità, al fine di salvaguardare l’occupazione e mettere a frutto le conoscenze e le competenze degli stessi operai;

– il 3 maggio 2013 la Magistratura ha decretato il fallimento dell’azienda CSF (ex-RSI), disponendo un altro anno di cassa integrazione per i dipendenti (avente termine al maggio 2014);

– L’1 e 2 giugno, le “Officine Zero” hanno presentato alla città il loro progetto per la riconversione e il riutilizzo dell’area delle Officine ex-RSI:

1) un “centro per il riutilizzo”, coordinato dall’“Associazione Operatori di Porta Portese” e di “Rete Nazionale Operatori dell’Usato” e dal centro studi “Occhio del riciclone”, i quali forniscono le proprie competenze a giovani disoccupati, ma soprattutto agli operai ex-RSI che in questa iniziativa vedono una possibile nuova occupazione: il recupero e manutenzione di materiali, elettronici e non, da poter rimettere sul mercato;

2) un percorso di auto-organizzazione animato da lavoratori precari e autonomi (partite Iva, collaboratori) per dar vita ad uno spazio di co-working e di servizi volti all’assistenza legale e fiscale degli stessi;

3) un progetto di co-housing, lo studentato autogestito “Mushrooms”;

Considerato che

– l’Assessore al Lavoro della Regione Lazio Lucia Valente e le Consigliere Regionali Cristiana Avenali, Marta Bonafoni e Rosa Giancola, con il coinvolgimento anche dell’Assessorato Rifiuti, Mobilità e Urbanistica, hanno più volte incontrato i lavoratori e visitato gli spazi delle Officine ex-RSI, manifestando la loro disponibilità per una positiva risoluzione della vertenza;

– il Vice Sindaco del Comune di Roma Luigi Nieri, l’Assessore alle Periferie e ai Lavori Pubblici del Comune di Roma Paolo Masini e il Consigliere dell’Assemblea Capitolina Gianluca Peciola hanno incontrato i lavoratori e visitato gli spazi delle Officine ex-RSI manifestando, congiuntamente all’Assessore al Turismo e Commercio del Comune di Roma Marta Leonori, l’interesse e la loro disponibilità per una positiva risoluzione della vertenza;

– il Tavolo per il “diritto allo studio” attivato presso l’Assessorato Formazione, Ricerca, Scuola e Università della Regione Lazio, che vede tra i partecipanti gli studenti dello studentato “Mushrooms”, intende mettere al centro della propria riflessione un modello di diritto allo studio innovativo e partecipato, che sappia erogare agli studenti servizi, alloggi, biblioteche, prestito di libri e quant’altro puntando anche su forme di collaborazione e di autogestione di spazi pubblici nel territorio.

Impegna

il Presidente della Regione Lazio e la Giunta a provvedere:

– ad intraprendere tutte le azioni possibili per garantire il ripristino dei livelli occupazionali per i dipendenti delle Officine ex-RSI;

– alla salvaguardia dell’area, anche attraverso il mantenimento dell’attuale destinazione d’uso;

– a prevedere la fattibilità di una serie di interventi volti allo sviluppo dell’area.

24 Set, 2013

Donne migranti e IVG

Diminuiscono gli aborti in Italia, ma le donne immigrate sono in controtendenza.

I Paesi che in Europa hanno il più basso tasso di abortività sono Svizzera, Germania, Olanda, Belgio e Italia. Ma anche se in Italia dal 1983 a oggi è il numero delle Ivg è diminuito del 50% risultano ancora alti i tassi per le donne straniere. Qual è la causa di questa differenza?

Il quadro statistico  di riferimento
Dalle relazioni che ogni anno fornisce il Ministero della Salute sull’applicazione della legge 194 risulta dal 1983 al 2011 siamo passati da un tasso di abortività su mille gravidanze dal 27,5 al 16,3, portando a una diminuzione effettiva del 40 per cento. Quando si parla di donne migranti il discorso si complica. A livello di numeri assoluti dal 1995 ad oggi il numero delle Ivg è sicuramente cresciuto: prima, su cento interruzioni di gravidanza, 6.6 erano riconducibili a straniere. Oggi sono 34. Ma se andiamo a guardare i dati Istat, risulta che il tasso di abortività delle donne provenienti dai paesi a forte pressione migratoria dal 2003 al 2009 è sceso con lo stabilizzarsi dell’esperienza migratoria.

Rimane però più elevato, come abbiamo già detto, rispetto a quello delle italiane. Le classi di età divergono: rispetto alle italiane che si attestano maggiormente tra fasce iniziali e finali del ciclo riproduttivo, le migranti sono maggiormente presenti nelle fasce centrali (18/34 anni). Le altre differenze sono relative al livello di istruzione (medio alto per le italiane e medio basso per le migranti), e lo stato civile: tra le migranti sono soprattutto le donne sposate a ricorrere alla 194.  Altro dato divergente è rispetto alle Ivg ripetute: tra le straniere l’incidenza è doppia rispetto alle italiane.

Perché le cose vanno così
«Le donne italiane sono maggiormente consapevoli dei mezzi di contraccezioni come la pillola, tipica del nostro sistema», spiega Mara Tognetti, docente di sociologia all’Università Bicocca di Milano e autrice del libro La salute delle immigrate. «In altri paesi si ricorre ad altri tipi di anticoncezionali. Per esempio, la spirale in Sud America, utilizzata anche in età giovanile. C’è pure il ricorso ad iniezioni anticoncezionali che hanno durata di sei mesi. Noi non possiamo “leggere” le Ivg delle italiane come quelle che avvengono tra le donne immigrate». Le motivazioni sono varie: «Le condizioni migratorie», prosegue Tognetti, «non sempre consentono di avere figli: c’è il rischio di perdere il lavoro;  alle volte non hanno una rete di supporto o sostegno, il nostro welfare pensa sempre che ci sia una famiglia dietro una donna».

Altri cause possono essere ricercate nella instabilità abitativa o di coabitazione. Una relazione stabile incide come gli aspetti economici. «Ma ci sono donne che si trovano a fare aborti ripetuti perché mosse dal bisogno, in larga parte inconsapevole, di dimostrare di essere ancora fertili».  Il contesto di provenienza ovviamente ha un peso: «Non bisogna dimenticare che le popolazioni vengono da contesti differenti con politiche demografiche diverse. In Cina la politica del figlio unico ha segnato generazioni di donne per cui l’ivg è considerato un normale mezzo di contraccezione. Questo vale anche per molte donne del Est Europa». E questo è un fattore che può spiegare come mai tra alcune nazionalità ci sia un numero più alto di IVG ripetute.

Caso studio: le romene di Arezzo
Proprio questa situazione cioè le Ivg ripetute tra le straniere ha portato alcune amministrazioni e le aziende sanitarie locali (Asl) ad interessarsi del fenomeno. All’interno di “Vivere insieme: quarto rapporto sull’immigrazione e i processi di inclusione in provincia di Arezzo” curato da Oxfam c’è un capitolo dedicato alla situazione delle  donne rumene. «Questa ricerca» spiega la ricercatrice Giovanna Tizzi «è stata fortemente voluta dalla Asl per vari motivi. Le IVG ripetute sono pericolose per la salute disica e psichica delle donne, ma incidono anche molto sulla psesa sanitaria». Rappresentano inoltre una sorta di fardello frustrante per gli operatori: «Più volte le operatrici sanitarie ci hanno detto che si domandano come sia possibile, dove sbagliano».

Lo studio evidenzia che a ricorrere maggiormente alle interruzioni di gravidanza sono, nell’ordine, provenienti da Perù, Nigeria, Romania, Moldavia, Cina. Hanno in media un’età compres tra i 28 e i 40 anni e spesso hanno fatto  la prima Ivg nel paese d’origine. I motivi che portano a tale scelte sono solitamente riconducibili ad una situazione socioeconomica sfavorevole, problemi con il partner o una maternità già realizzata. Viene riscontrata con frequenza anche una conoscenza  non adeguata dei metodi contraccettivi. Ma per quanto riguarda le rumene emerge una specificità: durante la dittatura di Ceausesco era di fatto vietato usare anticoncezionali e l’Ivg è stata legalizzata nel 1989. Non ci sono state che in epoca recentissima percorsi educativi e preventivi. I prezzi dei contraccettivi sono stati per molto tempo proibitivi. Rimangono ancora i luoghi comuni sulla pillola (fa ingrassare, aumenta la peluria, ecc.) e sugli altri metodi che ne rendono difficoltoso l’uso.

Vittime di Tratta
In altri casi invece i problemi sono strettamente legati al contesto politico culturale di arrivo: è il caso delle vittime di sfruttamento sessuale. Il tipo di vita a cui sono sottoposte fa si che siano particolarmente a rischio di Ivg ripetute, sia per irregolarità dello “stile di vita”, sia per le ripercussioni psicologiche che tale situazione comporta, sia per il costo dei contraccettivi. Nel loro caso gli operatori consigliano sempre il preservativo oltre che ad altri metodi anticoncezionali ma non sempre il cliente è d’accordo o alle volte l’offerta di somme più alte le convince a non prendere precauzioni. «Questa situazione fa sì che tra le persone che seguiamo con la nostra unità di strada, ci siano state donne che sono ricorse alle Ivg ripetute varie volte, anche sette o otto» osserva  Lisa Bertini della Cooperativa Cat di Firenze. «Oltre alle difficoltà derivanti dallo sfruttamento c’è anche il problema legato all’assenza di un permesso di soggiorno.

Quando la legge 194 è stata pensata non c’era ancora un flusso significativo di migranti nel Paese per cui i documenti non erano un problema». Il tesserino Stp (straniero temporaneamente presente) risolve in parte le difficoltà dato che comprende tra le visite mediche essenziali quelle legate alla maternità e all’Ivg. Però… «Succede che certe strutture ospedaliere chiedano anche un documento di identità, per i motivi più disparati, che spesso le vittime di tratta non possiedono», prosegue Bertini. «Questa difficoltà di accesso possono condurre al ricorso ad aborti clandestini, con tutto ciò che ne deriva in termini di rischi per la salute».

Aborti autoindotti
Uno degli incrementi registrati riguarda la pratica dell’aborto autoindotto, spesso attraverso l’assunzione di farmaci ad hoc acquistati attraverso reti illegali.  In molti casi queste situazioni vengono presentate come aborti spontanei. Da notare che, mentre tra le italiane l’indicatore degli aborti spontanei è rimasto invariato nel tempo, per le straniere e quasi quadruplicato passando dal 5% del 1998 al 17% del 2008. Non ci sono fonti certe visto la difficoltà a reperire informazioni in questi ambiti, ma sembra che farmaci che dovrebbero essere venduti solo con ricetta medica, siano recuperabili facilmente senza, tramite internet. Usati in dose massicce producono o facilitano un aborto spontaneo. Basta digitare il nome di uno di questi farmaci, che su google immediatamente spuntano fuori le istruzioni per l’uso abortivo. «Ma non sono i soli modi per procurarsi un aborto»,  dice  Bertini. «Per quanto riguarda le vittime di tratta alle volte ci pensano le mammane con i ferri o peggio gli sfruttatori con le botte che producono degli aborti che di spontaneo non hanno niente».

Consultori
Sono ampliamente utilizzati dai migranti. «E’ un dato più che evidente e storico, da sempre», afferma Tognetti. «E’ un servizio più che noto, in particolare per le donne del est Europa. Di facile accesso, a bassa soglia, è stato disponibile e flessibile nei confronti delle donne migranti. Ma non è sufficiente». Un altro problema è che le donne migranti tendono a rivolgersi ai consultori quando hanno un problema e mai con l’idea di fare prevenzione.  «Non fanno prevenzione, pap test anche dove ci sono dei protocolli strutturati e di facile accesso. D’altra parte c’è una diversa idee culturalmente di maternità, si pensi al mondo arabo e alla medicina cinese. E’ una questione rispetto alla quale dovremmo tutti interrogarci e anche porre questioni precise agli operatori, che spesso non sono preparati a trattare con utenze diverse da quelle autoctone».

Francesca Materozzi, Corriere Immigrazione
23 settembre 2013

23 Set, 2013

Centri antiviolenza, rischio chiusura

Arriva in parlamento il DL sul femminicidio, dove nemmeno si parla dei luoghi in cui, ogni anno, oltre 14mila donne trovano assistenza psicologica e rifugio se sono vittime di soprusi in famiglia. Eppure molte di queste realtà sono allo stremo per mancanza di fondi. E ad alcune non resta che chiudere i battenti.

Finanziamenti a singhiozzo. Affitti salati da pagare. Rischio di sfratti. Pochissime risorse da investire. Il lavoro che si trasforma automaticamente in volontariato. Fino, in alcuni casi, alla chiusura di centri e case rifugio per donne maltrattate che dovrebbero svolgere un ruolo centrale e determinante nel contrasto alla “guerra silenziosa” che ogni anno fa in Italia centinaia di vittime.

La situazione dei centri anti violenza (CAV) in Italia peggiora di giorno in giorno, nell’indifferenza del Palazzo. Tagli e difficoltà ad accedere periodicamente alle programmazioni regionali, una mannaia. Il decreto sul femminicidio, varato durante l’ultimo Consiglio dei ministri prima della pausa estiva, non menziona nemmeno i CAV. Per Titti Carrano, presidente della D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), nel dl manca “qualunque riferimento al riconoscimento del ruolo che i centri svolgono da anni in Italia: chiediamo il loro coinvolgimento nei tavoli tecnici che si occupano di violenza e lo stanziamento di specifici e adeguati fondi definiti nella legge di stabilità”.

Un provvedimento (andrà in aula il 23 settembre) che esclude – come previsto dalla Convenzione di Istanbul – gli interventi di prevenzione. Come quelli svolti dai CAV: supporto legale e psicologico alla donna maltrattata, collaborazione con forze dell’ordine e servizi sociali, Telefono Rosa h24 per le emergenze, attività di promozione culturale con corsi nelle scuole, convegni, seminari e iniziative di vario genere. Poi le case rifugio per ospitare le donne in pericolo e impossibilitate a tornare a casa per paura del compagno aguzzino.

Sono 124 le donne uccise nel 2012 e 14mila quelle che si rivolgono, ogni anno, ai 63 centri anti violenza aderenti a D.i.Re. A questi vanno aggiunti un’altra quarantina autocensiti per un totale di 100 centri presenti sul territorio nazionale. E nel 2013 sono in aumento le donne che si rivolgono ai CAV, sintomo di una maggiore consapevolezza.

“E’ arrivata un’ingiunzione di pagamento, siamo a rischio sfratto” denuncia Cinzia Maroccoli, presidente del CAV di Potenza, l’unico dell’intera Basilicata. Si caratterizza per costituirsi parte civile ai processi contro gli uomini maltrattanti. Aperto dal 1989, fino al 2001 è andato avanti con autofinanziamenti. “I soldi arrivano a singhiozzo – spiega – Siamo ancora in avanzo della cifra del 2011 mentre non conosciamo ancora l’importo per il 2013”. In mancanza di risorse, ecco la riduzione dei servizi, il lavoro delle operatrici che diventa volontariato e la morosità nella locazione di 1200 euro al mese. Il CAV ha anticipato soldi e si è indebitato con la banca, con la speranza che arrivino i finanziamenti regionali. Prima o poi. Assenti le risorse per ampliare la casa rifugio al momento capace di ospitare 5 donne. “A volte dobbiamo rifiutare le richieste per mancanza di posti e indirizzare le donne maltrattate verso altre strutture di accoglienza” spiega la presidente “La nostra è precarietà esistenziale, non riusciamo a prospettare un intervento di lungo periodo. Ci negano un futuro”. E due signore ospitate sono all’ottavo mese e sul punto di partorire.

Altri centri rifugio sono stati costretti direttamente a chiudere. Come il caso a Cosenza del “Roberta Lanzino”. Parliamo con la responsabile, Antonella Veltri, che racconta come nel 2010 abbiano preso la sofferta decisione per la mancanza di fondi. Ad oggi sono morosi con il proprietario dello stabile. Rischiavano di chiudere anche il centro di supporto legale e psicologico, per fortuna è arrivata una boccata d’ossigeno: “La Provincia ci ha assegnato un posto”. Un passo importante.
“Ovviamente il lavoro” afferma Veltri “resterà volontario e una qualsiasi spesa sarà coperta da autofinanziamenti o iniziative autorganizzate (riffe o vendita di candele per strada)”. I pochi spiccioli in arrivo dalla Regione non sono sufficienti.

Se al Sud si evidenziano situazioni limite, al Nord i CAV versano in condizioni poco migliori. A parte il Trentino che è la regione più virtuosa e più attenta al finanziamento dei centri. Secondo un calcolo dell’Unione europea, ogni Paese dovrebbe prevedere un posto sicuro per vittime di violenza di genere ogni 10mila abitanti. In Italia ne servirebbero circa 6mila. Nella realtà sono soltanto 500. A fine anno potrebbero essere ancora meno le case rifugio. Così come le operatrici spesso disincentivate da tale corsa ad ostacoli.

In Emilia Romagna il CAV di Lugo adesso è riuscito ad accedere a finanziamenti comunali ma ha rischiato la chiusura. “Il nostro è volontariato puro” racconta Nadia Somma, presidente dell’associazione Demetra donne in aiuto “Abbiamo ridotto a 6 ore alla settimana il nostro intervento: tra affitto, rimborso benzina, elaborazione progetti, spese varie non avevamo più soldi”. E invece servirebbero risorse anche per corsi di formazione a procure e forze dell’ordine: “Spesso” continua Somma “un agente confonde le violenze domestiche per conflitti familiari non intervenendo a dovere sul compagno maltrattante”. Mentre nel caso di affidi in comune, si costringe la donna a continuare ad incontrare l’uomo che dopo il distacco diviene maggiormente violento.

La rete D.i.Re promette battaglia per modificare il decreto in Parlamento. Così come alcuni parlamentari sensibili al tema. Celeste Costantino, deputata di Sel, ha intrapreso un viaggio nazionale nei centri, chiamato #RestiamoVive, per testimoniare le difficoltà in cui versano queste strutture,  raccogliere dati e numeri, ascoltare dalla viva voce delle operatrici le difficoltà del lavoro quotidiano:  “Dal Nord al Sud del Paese i CAV si ritrovano a lavorare in una situazione davvero insostenibile. Al più presto serve un piano di finanziamento nazionale per la prevenzione, percorsi di aiuto per gli uomini maltrattanti, un Osservatorio nazionale, l’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole, proposta di legge, quest’ultima, che ho già depositato. Il dl femminicidio è stato scritto senza tenere conto della complessità del tema e con un’ottica da ‘pacchetto sicurezza’. Un’occasione persa dopo aver votato all’unanimità la Convenzione di Istanbul”.

Giacomo Russo Spena, L’Espresso

21 Set, 2013

Poveri figli

Un pasto caldo, un posto tra i banchi di scuola, cure mediche, dei giochi, il senso di sicurezza. Il minimo indispensabile per un bambino. Eppure l’Italia, considerata ancora un Paese ricco, non sa più dare benessere ai suoi cittadini, ancor meno ai suoi bambini: 1 milione e 800mila minori vivono sotto la soglia di povertà e più di 700mila in condizioni di miseria assoluta.
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19 Set, 2013

Il femminicidio delle larghissime intese

La storia è lunga, il dibattito tra le femministe complesso e accidentato, fin da quando nel senso comune cominciò a farsi strada l’idea che la violenza contro le donne non era una questione di offesa al pudore o alla morale,in cui si sono per decenni esercitati giudici e penalisti su quanto la “provocazione” femminile desse o non desse adito al desiderio irrefrenabile dell’uomo cacciatore e su come le mogli non dovessero rifiutarsi al debito coniugale.
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