Marta Bonafoni

Donne in carcere. Intervista a Ida Del Grosso, direttrice a Rebibbia

Abbiamo incontrato la direttrice dell’istituto femminile di Rebibbia il più grande dei sei esistenti in Italia con 400 donne detenute.
Intervista di Maria Fabbricatore

Abbiamo incontrato la direttrice dell’istituto di Rebibbia il più grande in Italia dei sei esistenti con questo tipo di struttura autonomo, con poco più di 400 detenute. È un carcere che comprende anche la sezione con detenute ad alta sicurezza. L’istituto è indipendente e gestisce in modo autonomo progetti e risorse. Ha dei servizi di eccellenza, come il nido per i bambini, che abbiamo visitato, che prevede per legge da zero a tre di stare dentro con le madri. E il servizio gestito dai volontari di “A Roma, insieme Leda Colombini”, che porta i bambini dal carcere ai nidi esterni comunali. Unico esempio italiano. Sono previsti per legge anche gli Icam, strutture esterne al carcere, le case famiglia, di gestione comunale o pubblica, funziona bene ad esempio quello milanese, su quelli previsti a Roma si discute, in modo costruttivo, ma non si sa quali strutture verranno adibite a casa famiglia e quando.

Venendo qui, direttrice, ho trovato i parenti in fila ordinata che venivano a fare visita alle detenute.
Si teniamo molto alle famiglie, stiamo facendo delle ristrutturazioni da quel lato dell’istituto. La nostra è una struttura aperta per le detenute da sempre, da vent’anni. Dalle otto di mattina alle venti di sera, possono girare liberamente all’interno dell’istituto, ovviamente se ci sono dei motivi. Facciamo tantissimi trattamenti.

È così posso confermarlo, mi è capitato di vedere, visitando il carcere passando dalla biblioteca al teatro donne che camminavano tranquillamente da un corridoio all’altro e salutavano la vice direttrice Gabriella Pedote, che mi accompagnava “Come va?” lei alla detenuta, e l’altra: “tutto bene, dottoressa, ho la visita, grazie”. Per chi come me non conosceva, faceva fatica a volte a distinguere il personale dalle detenute. E così loro a me.

Riprendo l’intervista, guardando di tanto in tanto fuori dalla finestra il giardino, dove, come mi dirà la direttrice, le detenute, d’estate, trascorrono il tempo con i figli che vengono dall’esterno. Ci sono i gazebo dell’Ikea, sedie e tavolini. Le esperienze delle donne nel carcere sono tante qualcuna eclatante è rimasta nella memoria. Molte si sono salvate da un destino segnato, qui in carcere la vita non è facile, mai. Ci sono i figli fuori che aspettano che le madri tornino, qualcuna ritorna per sempre, ma la lontananza dai figli è il dolore più grande, quelle che le tiene in vita o le condanna per sempre. Dentro c’è la biblioteca con 10.000 volumi. Il teatro. L’azienda agricola con allevamento di conigli e pecore, ma produce, per ora solo per l’istituto. Corsi di yoga e palestre in cui c’è il personale del Coni, perché con lo sport si fa squadra e si scopre cos’è lo spirito di gruppo.

Cosa sono i trattamenti intende quelli di tipo psicologico?
(Sorride) I trattamenti sono l’offerta dei progetti. Uno su tutti la scuola. Ci sono le scuole elementari con personale e docenti che fanno normale richiesta al provveditorato per insegnare in carcere. Le detenute straniere fanno richiesta delle scuole alimentari per poter imparare bene l’italiano. La funzione della pena è una funzione rieducativa e deve tendere alla rieducazione del condannato, sennò non ha senso. Gli strumenti servono perché le detenute possano capire lo sbaglio, per questo puntiamo molto sui progetti dalla scuola, al lavoro, la religione, biblioteca, teatro. E poi abbiamo tantissimi volontari.

Ci sono tantissimi volontari e tante associazioni, questo succede perché la vostra “burocrazia” permette un supporto dall’esterno?
Noi siamo una struttura aperta, più persone entrano da fuori, più possono verificare come noi lavoriamo e che si può fare qualcosa di positivo.

Poi contano i fatti
Sì, contano i fatti e i progetti si fanno se c’è collaborazione e se si lavora per lo stesso obiettivo. Per questo è importante che si parli di quello che si fa dentro. Abbiamo un’attenzione per i parenti, ma soprattutto per i figli. Abbiamo il nido intitolato a Leda Colombini che ha fondato l’associazione “A Roma, Insieme”, lei non c’è più, ma il volontariato continua. Noi abbiamo questa piccola sezione, che come potrà vedere ricorda più un nido che una sezione detentiva. Oggi il nido è sovraffollato perché ci sono 22 bambini e il massimo è 18. Puntiamo soprattutto sulla scolarizzazione dei bambini, abbiamo il pullmino con i volontari che vengono a prendere i bambini e li portano ai nidi dalle 8 alle 16.30

Da quando tempo lei lavora in questo carcere, cosa ha fatto prima?
Per cinque anni vice in un carcere maschile a Rimini, da 15 anni sono qui come vice direttore e direttore da nove mesi, quindi da 21 anni.

Come mai negli altri carceri italiani non c’è un servizio come il vostro e che funziona bene come quello voluto da Leda Colombini?
Esistono altri tipi di strutture, ma noi abbiamo più mamme con bambini. L’Icam a Milano funziona come casa famiglia, è esterno al carcere. Il nostro forse si differenzia per fatto che è tutto al femminile, e da sempre lavoriamo sul messaggio della maternità.

C’è una differenza nella riabilitazione delle mamme detenute che hanno commesso reati comuni e quelle che stanno al carcere duro?
Lei tocca un argomento delicato, ma quello della maternità le accomuna tutte. Il grande dolore delle donne chiuse in massima sicurezza, o la ragazza al primo furto, se ha figli fuori soffre da morire per questa separazione. La paura di perdere i figli è il dolore più grande, perché stanno fuori, perché quelle che hanno i figli fino a tre anni li tengono qui. Questa è la grande sofferenza delle donne madri

Ma forse anche la grande forza delle madri
E’ anche la grande forza che aiuta e su cui noi puntiamo molto. C’è stato un corso un po’ di tempo fa sull’importanza della genitorialità anche come risorsa, e come ha detto lei, io sono convinta che il fatto di avere dei figli fuori può essere la molla per tornare nella società senza compiere altri reati, ma anche di conservare il senso di maternità. Abbiamo oltre al giardino, una ludoteca a dimensione di bambino, perché per il bambino non è bello andare a trovare la mamma in carcere, c’è il senso di vergogna, quindi lo spazio è pensato in modo accogliente

Il punto fondamentale per una donna detenuta è il forte senso di maternità che porta a fare le scelte migliori per lei e per i figli, penso alle testimoni di giustizia legate alla ‘ndrangheta ad esempio, è vero secondo lei?
Si, noi, esempio abbiamo avuto una ragazza rom, loro sono sottomesse ai mariti perché la loro cultura è basata sul fatto che si deve rubare perché viene imposto dai mariti. Noi premendo sull’affetto che provava per i figli siamo riusciti a convincerla a smettere di commettere reati, lei ha abbandonato il marito e poi è stata abbandonata dal marito e dalla comunità. Ma questo le ha permesso di salvare se stessa e i figli, insomma ha rotto gli schemi culturali

Ci vuole un grande coraggio rompere gli schemi di una cultura millenaria come quella dei rom, abbandonare la famiglia per dare ai figli una vita migliore
Ma ci vuole tanta forza per abituarle a mandare i figli al nido, perché i figli devono andare a scuola, al nido, alle elementari è lì che nasce l’integrazione tra rom e cultura italiana

Qual è la cosa a cui tiene molto che spera di veder realizzato qui nel carcere?
La cosa più importante, che ancora non abbiamo e che spero che tra un paio di anni lei ritorni e vediamo se siamo riusciti ad ottenere, è quello di avere una cucina che lavori per l’esterno, un servizio di catering di cucina anche internazionale, che permetta alla maggior parte delle detenute di lavorare. Nei carceri del nord c’è l’esempio del panettone Giotto, a Parma, fanno un panettone ottimo a livello industriale. Perché quello che manca oggi è questo: su 400 donne ne lavorano solo 80 sono poche ne devono lavorare di più. Alcune lavorano anche all’esterno, noi puntiamo molto sul lavoro all’esterno in semilibertà, insomma è un modo per dare fiducia.

Al ritorno riprendiamo l’autobus e poi la metro. Ci guardano tutti, siamo stati a trovare le nostre parenti detenute. Il cancello dal quale siamo uscite non lascia dubbi. Solo una vecchietta ci rivolge la parola e ci raccomanda un mercato vicino a Rebibbia: “Costa tutto molto poco, la cicoria a 25 centesimi, come si può rinunciare, con la pensione che abbiamo”, ci dice. Già come si fa a rinunciare.

Il servizio fotografico sul prossimo numero di Noidonne

Maria Fabbricatore, NoiDonne

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