Marta Bonafoni

La violenza di genere nei graffiti di Piazza Tahrir

Il fenomeno della violenza sulle donne non è nuovo nelle strade egiziane, soprattutto dopo la rivoluzione del 25 febbraio 2011. Da allora i disordini politici e la confusione all’interno degli organi di sicurezza hanno portato alla proliferazione dei crimini, compresi quelli di natura sessuale. Quello a cui si assiste ora in piazza Tahrir e negli altri luoghi di protesta sembra però andare oltre a un semplice problema di sicurezza pubblica.

A febbraio l’associazione femminista Nadhra ha pubblicato un report dettagliato sul fenomeno. Le molestie sessuali sistematiche all’interno dei luoghi di protesta, e l’atteggiamento tollerante verso questi crimini da parte delle autorità, vengono descritti come un vero e proprio tentativo di allontanare le donne dagli spazi pubblici e dalla politica. Quelli usati sono strumenti di tipo terroristico, che utilizzano la paura della violenza e della condanna sociale come armi di intimidazione.

Le reazioni da parte dei gruppi di attivisti non si sono fatte attendere. Alcuni di essi si sono repentinamente organizzati in “gruppi di scorta”, come le associazioni Tahrir bodyguard e Operation anti sexual harassment, che hanno creato veri e propri protocolli di sicurezza per le donne che desiderano partecipare alle proteste, protette dai dimostranti maschi con schemi quasi militari. Questi gruppi forniscono anche supporto psicologico alle vittime delle violenze, e stanno ora tentando di formare un fronte di protesta compatto che richiami le autorità e le forze politiche alle proprie responsabilità.

Ma la reazione non si è fatta attendere nemmeno sui muri di Piazza Tahrir, da due anni e mezzo vero e proprio luogo narrativo dei fenomeni che attraversano la lunga transizione egiziana.

Il fenomeno risale già all’epoca di dominio dei militari. Durante quel periodo vi fu il drammatico episodio di una manifestante che fu ripresa mentre veniva selvaggiamente aggredita da alcuni poliziotti in divisa. L’episodio è rimasto nella memoria di molti perché la ragazza, che inizialmente era completamente coperta dal velo e una lunga tunica (abaya), durante le percosse venne quasi denudata scoprendo il reggiseno blu che portava. Da allora “The blue bra” è diventato un simbolo della violenza delle forze di sicurezza sulle manifestanti donne.

Sono stati già molte decine i casi di stupro finora denunciati, ma si teme sia solo la punta di un iceberg. La società patriarcale egiziana tende ancora a considerare lo stupro prima di tutto come un disonore per la donna che lo subisce, e questa pressione psicologica impedisce a molte ragazze di denunciare la violenza subita.

Il fenomeno, e la coraggiosa reazione dei gruppi di manifestanti e delle associazioni femministe, rappresentano una delle molte convulsioni che attraversano la società egiziana in repentino cambiamento da due anni a questa parte; una lotta per una piccola rivoluzione all’interno della rivoluzione egiziana stessa: la rivendicazione del diritto delle donne alla presenza ideale e, soprattutto,fisica all’interno degli spazi pubblici e nella politica.

Le foto sono tratte dal post di Mona Abaza su Jadaliyya

ISPI

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