Al Cpr di Ponte Galeria, il clima cambia anche qui
L’ultima volta che c’ero stata si chiamava ancora Cie, adesso è un Cpr: Centro di Permanenza per il Rimpatrio. Ieri mattina sono entrata a #PonteGaleria, con Alessandro Capriccioli.
Provo a dirvi quello che ho visto e che ho sentito (non solo con le orecchie). Perché la’ dentro ci possiamo entrare in pochi, e invece è tanto importante che tutti e tutte sappiano e capiscano, perché anche quella è Italia, è Stato. Siamo un po’ anche noi.
“Febbraio sarà un mese importante per il centro. Torneranno gli uomini dopo due anni di assenza: 126 posti in totale. Nel megasettore maschile sono in corso i lavori . Ci sono ruspe, calce e materiale ovunque. Non sarà più come prima: certo più pulito e dignitoso, bianche le pareti, verde-bottiglia le porte, i letti nuovi (inchiodati a terra per evitare che si trasformino in possibili “armi”). Non sarà come prima però anche perché la libertà di movimento sarà ulteriormente limitata: niente più mensa, i pasti saranno consumati nelle stanze, i “trattenuti” potranno passeggiare solo dentro il proprio settore, diviso dal resto da mura e sbarre solo apparentemente uguali a quelli di due anni fa. Basta alzare la testa verso il cielo per misurare “la stretta”: le sbarre raddoppiano, da quattro passano a otto metri di altezza. Dice che è “per evitare fughe”, ma nella storia di quel Cie per la verità non se ne è verificata mai neanche una.
Il clima sta cambiando anche qui, che non era l’Eden certo. Ma il nuovo corso del Viminale si avverte, come un vento che arriva, e quell’enorme muro di cemento armato lascia pochi dubbi.
Febbraio sarà un mese importante anche per le donne, a Ponte Galeria: piano piano ci saranno i lavori di ristrutturazione anche nelle loro stanze. Le “ospiti” ci provano a tenerle umane, con i loro murales colorati, ma gli sforzi crollano di fronte all’umidità delle pareti, ai materassi di gommapiuma mangiati dall’uso, alle mille buste di cartone piene di qualsiasi cosa e messe ovunque (usate come fossero cassetti perché i mobili non ci sono).
Ora al Cpr le donne presenti sono in tutto 49, divise per nazionalità sembrano ricopiare il planisfero che sta alla parete della stanza del direttore. Di qua slave e latino-americane, di la’ cinesi e nigeriane. Quando arriviamo c’è il sole, che a Ponte Galeria è un regalo sempre: i panni stesi ovunque, c’è chi legge, chi chiacchiera seduta su un materasso parcheggiato a terra, le cinesi colorano disegni che diventeranno delle specie di festoni, per il Capodanno che inizia oggi.
Ci fermiamo a parlare con le nigeriane, e le loro parole valgono tutto questo racconto. Senza commento, senza conclusioni.
Sophia è una donnona di 45 anni, capelli cortissimi, è al Cpr da nove mesi, parla mezzo italiano mezzo inglese. Dice che non ce la fa più a stare qui, che vorrebbe un lavoro, i documenti, ma si accontenterebbe per il momento anche di un campo per giocare a pallone. Si sente un’anziana qua dentro. Ci dice guardandoci negli occhi “I need Freedom”, e poi ripete più volte durante il discorso “I want to walk”, voglio camminare, voglio camminare, voglio camminare. Evidentemente non considera valido farlo circondata dalle sbarre.
Rachel ha trent’anni, gli occhi, la grinta e i muscoli di chi vuole mangiarsi la vita. E’ chiusa al Cpr da tre mesi e quattro giorni (li conta tutti, uno per uno). Non usa mezze parole, e certo non mi metto a dimezzarle io per lei. Ecco il suo giudizio senza appello su Ponte Galeria:
“Qui si sta peggio che in manicomio, facciamo una vita che può distruggere le persone, certo non le può migliorare. Piano piano la vita così va giù. Un errore si può commettere, ma sempre ci vuole la possibilità di ricominciare da zero. Io chiedo di rivivere”.
Rachel conosce benissimo il nome di chi decide la’ in alto, e vuole che l’aiutiamo a parlare con lui: “A Salvini – dice – chiediamo una possibilità, una prova.
E non di condannarci tutti all’inferno”.