Sì, dobbiamo avere di nuovo paura della guerra
Sì, dobbiamo avere di nuovo paura della guerra.
Stiamo attenti a non abituarci all’idea. Guardiamoci bene dalle profezie che si autoavverano, anche se c’è indubbiamente nell’aria un sentore di guerra, una sensazione sempre più forte di qualcosa che sta per precipitare, quasi un bisogno di venire alle mani per stabilire, una volta per tutte, i rapporti di forza in questo mondo che fa così paura perché non lo si comprende più.
La situazione in cui ci troviamo non si è creata in un giorno. È il portato di una lenta e lunga evoluzione, quasi impercettibile. Ma se dovessimo datare questo cambiamento d’epoca potremmo farlo risalire alla primavera del 2014. Nel marzo di quell’anno, la Russia annette la Crimea ucraina. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, una potenza europea annette il territorio di un’altra potenza europea e la Russia comincia subito a fomentare, armare e finanziare un movimento di secessione dell’Ucraina orientale, ancora attivo.
Si può sostenere che la Crimea era stata russa fino al 1954, che l’Ucraina orientale è tanto russa quanto ucraina e che il Cremlino temeva che un riavvicinamento tra l’Ucraina e l’Alleanza atlantica gli facesse perdere la base navale di Sebastopoli. Ma si potrebbe ribattere che la Crimea era stata ottomana prima di diventare russa e che comunque è essenzialmente tatara, anche se resta il fatto che vi è stata un’annessione, in violazione di tutte le leggi.
Un tabù essenziale è stato violato e le conseguenze, anche se ovviamente meno visibili di un conflitto aperto, come quelli in corso nel Medio Oriente, sono devastanti. Gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno applicato sanzioni economiche contro la Russia che ne risente quanto i paesi occidentali.
Spaventati da questo precedente, i tre Stati baltici e la Polonia hanno ottenuto dalla Nato un rafforzamento della sua presenza nei propri territori. Al confine orientale dell’Unione europea, russi e occidentali ora si fronteggiano e lungo le sponde del Baltico la paura della guerra è tanto più reale quanto più l’aviazione russa lancia provocazioni quotidiane.
L’annessione della Crimea ha segnato una vera svolta perché Vladimir Putin ha scelto di risolvere con un fatto compiuto militare quello che considerava come un problema di sicurezza nazionale. Non uno ma due tabù sono caduti così di colpo e, in corrispondenza al ricorso alla forza da parte della Russia, vediamo oggi Donald Trump che invia una portaerei verso le coste coreane dopo aver fatto annientare una base dell’aviazione militare di Bashar al-Assad in Siria.
Sarebbe stato, certamente, orribile se, ancora una volta, il macellaio di Damasco avesse potuto usare impunemente armi chimiche contro il suo popolo. Ed è bene che l’“Ubu roi” nordcoreano sappia che non è più libero di fare qualsiasi cosa. Ma, ancora una volta, si è acceso un dibattito poiché il presidente americano ha bombardato la Siria senza un mandato delle Nazioni Unite e le sue gesticolazioni al largo della Corea possono scatenare una dinamica incontrollabile il giorno in cui Pyongyang decidesse di effettuare un nuovo test nucleare.
Dopo Mosca, anche Washington torna a ricorrere all’uso della forza come strumento politico. Entrambe le capitali lo fanno apertamente, senza imbarazzo e in modo tranquillo. E non è tutto. Perché i dirigenti cinesi fortificano e trasformano in basi militari degli isolotti contesi e disabitati del Mar Cinese Meridionale?
La risposta, limpida, evidente, è che il paese più popoloso del mondo vuole intimidire in questo modo i suoi vicini e Taiwan innanzitutto, dimostrando loro che non teme nessuno ed è la potenza dominante e assolutamente imprescindibile del continente asiatico, e forse, un giorno, anche del Pacifico.
Al pari di Washington e di Mosca, Pechino conta sulle sue forze armate il cui budget aumenta, rapidamente, ogni anno. Il grande sogno “onussiano” di un parlamento delle nazioni dove si potrebbero risolvere tranquillamente i conflitti sembra più che mai evanescente e i paesi dell’Unione europea cominciano a prendere in considerazione la creazione di una difesa comune e un aumento della loro spesa militare. Il fatto che si sentano costretti a imboccare questa strada è un segno dei tempi, poiché di fronte a una protezione americana ormai incerta, al riemergere di tensioni a Est e al caos del Sud, devono contare sulle proprie forze.
Si potrà dire che non c’è niente di nuovo sotto il sole ed obiettare che non si vedono progressi in questo senso. Ma durante tutto il periodo della guerra fredda, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti non avevano fatto altro che moltiplicare le loro testate nucleari arrivando a un passo dalla distruzione del mondo all’epoca della crisi dei missili di Cuba. E se alla fine hanno evitato uno scontro diretto, non hanno cessato di combattere guerre per procura, dal Vietnam all’Afghanistan, passando per l’Africa e l’America Latina.
È vero. Noi non usciamo da un’epoca di pace e di armonia planetaria, ma tra i decenni che hanno preceduto la caduta del muro di Berlino e quelli successivi, fra queste due epoche, le differenze sono così grandi che cambiano la situazione.
Nell’era sovietica, la Russia si estendeva entro i confini dell’Impero che gli zar avevano costruito e si proiettava verso l’Europa centrale che Stalin aveva annesso. Oggi la Russia resta il paese più esteso del mondo ma, tralasciando la Polonia che aveva cancellato dalla carta geografica nel XIX secolo, ha perso l’Asia centrale, la maggior parte del Caucaso e l’Ucraina, la culla da cui è nata più di mille anni fa.
Soffre ancora i dolori di queste amputazioni. Ed è in preda a una febbre revanscista. Nelle ex repubbliche sovietiche, diventate oggi Stati indipendenti, può far leva, come in effetti accade, sulle minoranze russe e di altre etnie che si erano insediate in questi territori in epoca sovietica e già ancor prima sotto gli zar.
La questione russa, che è essenzialmente una questione di frontiere, ha continuato a creare tensioni e, parallelamente, in Asia, un intero continente è emerso da un lungo letargo, si è affermato economicamente e, come l’Europa di ieri, sta cercando un equilibrio tra le sue grandi potenze. Paralizzata dalla Cina come l’Europa lo era stata dalla Francia di Luigi XIV e di Napoleone, l’Asia cova dei conflitti che ribollono nel Mar della Cina. E poi ci sono i mondi musulmani.
Ma la realtà più inquietante non è quella dell’Isis e del terrorismo islamista, che continuerà a colpire. Nessuna città, nessun paese, nessun continente ne è al riparo, ma l’Isis, già molto indebolito, non è invincibile, mentre il Medio Oriente sta entrando in una Guerra dei Cent’anni in cui s’intrecciano un braccio di ferro millenario fra le sue potenze, la religione e il crollo delle frontiere coloniali. Per dividere e regnare, Francia e Gran Bretagna avevano disegnato, sulle macerie dell’Impero Ottomano, degli Stati in cui dovevano convivere le differenti religioni dell’Islam e del cristianesimo, per non parlare dei drusi, dei curdi o degli yazidi. La guerra fredda aveva consolidato questi confini, perché i due blocchi dividevano anche il Medio Oriente, ma oggi che non c’è più il colonialismo né il bipolarismo, la realtà riprende il sopravvento.
Tutti vogliono vivere in casa propria, perché tutti vogliono prendere possesso del loro destino. Gli Stati postcoloniali si stanno sgretolando e questo tanto più velocemente quanto più la rinascita della Persia sotto le spoglie del moderno Iran rinfocola la rivalità tra le due correnti religiose dell’Islam, i sunniti e gli sciiti, e rimette in contrapposizione la potenza araba con quella persiana.
Dall’Asia al Medio Oriente passando per l’area russa, la fine della guerra fredda ha risvegliato innumerevoli conflitti rimasti a lungo congelati. Stiamo vivendo i primi sussulti della gestazione di un nuovo mondo e le paure che suscitano si aggiungono a quelle generate dalla globalizzazione economica, con le sue delocalizzazioni di imprese, le sue nuove forme di concorrenza e la conseguente pressione che essa esercita sui redditi e i sistemi di protezione sociale dei lavoratori salariati occidentali.
Il sommarsi di queste paure ha prodotto, a sua volta, un ritorno dei nazionalismi e delle destre estreme negli Stati Uniti, in Europa e in Asia. Quasi il 22 per cento dei francesi ha votato per la Marine Le Pen in Francia. Questo non le basterà per conquistare la presidenza della repubblica, ma è comunque un grande risultato e figure politiche a lei simili sono già al potere a Washington e Nuova Delhi, a Mosca e Gerusalemme, a Pechino, Budapest e Varsavia. Il nazionalismo è una tendenza sempre più diffusa in questo inizio dei secolo. Ma il nazionalismo è la guerra.
Traduzione di Mario Baccianini