Marta Bonafoni

La nostra libertà comincia dai migranti

Migranti e confini. Le ferite d’Europa. Un po’ per volta l’Europa sta ritrovando le sue radici: confini inviolabili, egoismi e pregiudizi nazionali e razziali, l’eredità di un secolo e mezzo di colonialismo, le conseguenze di guerre dissennate a cavallo del terzo millennio, gli effetti del pensiero unico occidentale in forma di liberismo sfrenato.

Da Lam­pe­dusa non si entra. Da Calais non si esce. Da Ven­ti­mi­glia non si passa. Dalla Ser­bia a Buda­pest si viag­gia in vagoni piom­bati. A Ceuta e Melilla, enclave spa­gnole in terra d’Africa, come al con­fine fra Bul­ga­ria e Tur­chia o al con­fine fra Unghe­ria e Ser­bia, si alzano reti­co­lati e muri.

Un po’ per volta l’Europa sta ritro­vando le sue radici: con­fini invio­la­bili, egoi­smi e pre­giu­dizi nazio­nali e raz­ziali, l’eredità di un secolo e mezzo di colo­nia­li­smo, le con­se­guenze di guerre dis­sen­nate a cavallo del terzo mil­len­nio, gli effetti del pen­siero unico occi­den­tale in forma di libe­ri­smo sfre­nato. Il tun­nel di Calais è una vivida meta­fora di tutto que­sto: pen­sato per unire, è diven­tato una inva­li­ca­bile bar­riera divi­so­ria per chi non ha i soldi del biglietto – anzi, una bar­riera fra chi i soldi ce li ha e chi no.

Scri­vendo su un altro con­fine e un altro muro – quello fra Stati Uniti e Mes­sico, la scrit­trice chi­cana Glo­ria Anzal­dúa con­clude: il con­fine «es una herida abierta», è una ferita aperta, dove il Terzo Mondo si stro­fina con il Primo, e san­guina. Come il Rio Grande e il muro che lo costeg­gia, anche Lam­pe­dusa, Calais, Ven­ti­mi­glia sono ferite aperte, il san­gui­nante con­fine fra un Primo Mondo sem­pre più sel­vag­gio e un Terzo Mondo che non ce la fa più a sop­por­tare fame, guerra e dit­ta­ture come destini ine­lut­ta­bili e viene a chie­der­cene il conto. Adesso que­sti due mondi non si stro­fi­nano più sol­tanto ai con­fini fra loro, ma anche den­tro l’Europa stessa, e la insan­gui­nano tutta; ma il senso è sem­pre quello: l’insopportabilità di un mondo in cui ric­chezza e risorse si ripar­ti­scono in misura sem­pre più ingiu­sta e disu­guale. Un tempo, di que­ste ingiu­sti­zie si occu­pava la sini­stra. Oggi, ci rac­con­tano, sono finite le ideo­lo­gie; ma la lotta di classe con­ti­nua, in forme inso­lite e dram­ma­ti­che. Da un lato, quella guerra di classe dei ric­chi con­tro i poveri di cui ha scritto elo­quen­te­mente Luciano Gal­lino (e di cui la vicenda greca è una variante significativa).

Dall’altro, la più antica lotta dei poveri per avere anche loro quello che hanno i ric­chi: l’immigrazione di massa è infine (ed è sem­pre stata) pro­prio que­sto, l’arma estrema dei dan­nati della terra per un minimo di accesso ai beni della terra su cui viviamo tutti. A dif­fe­renza delle forme di lotta e dei con­flitti sociali del secolo scorso, que­sta lotta non è mossa dal pro­getto di abbat­tere un sistema, ma dall’ansia di con­di­vi­derlo; non dall’ostilità ma dal desi­de­rio, dal sogno, se non dall’amore idea­liz­zato. Solo che sic­come il sistema che vor­reb­bero con­di­vi­dere è in realtà retto da egoi­smo ed esclu­sioni, la richie­sta di con­di­vi­sione ne mette a nudo limiti e ipo­cri­sie, impone ine­vi­ta­bil­mente il cam­bia­mento e per que­sto l’Europa la per­ce­pi­sce come inva­sione e minac­cia e cerca in tutti i modi di fer­marla. Ma fer­mare un simile cam­bia­mento epo­cale è come pro­vare a fer­mare il mare con le mani.

E’ dif­fi­cile dire come pos­siamo noi svol­gere un ruolo in que­sta nuova lotta di classe . Il lavoro di tante forme di volon­ta­riato e di inter­vento di base è pre­zioso, aiuta, salva vite, crea rap­porti; ma le dimen­sioni del dramma sono almeno per ora supe­riori alle forze che può met­tere in campo da solo. Io credo che dob­biamo comun­que tutti accet­tare che le nostre vite non pos­sono con­ti­nuare uguali come se nulla fosse, magari con un po’ di tol­le­ranza e bene­vo­lenza in più. Né noi né i migranti ci pos­siamo sal­vare da soli: quelli che dicono “prima gli ita­liani” non hanno capito che entrambi abbiamo biso­gno delle stesse cose – casa, lavoro, salute, scuola, diritti, tutte cose che i migranti cer­cano e che noi stiamo un poco per volta per­dendo, e che pos­siamo forse sal­vare e recu­pe­rare insieme, per tutti.

Dob­biamo ritro­vare alla demo­cra­zia il suo signi­fi­cato pro­fondo, che non sta nella poli­tica e nelle isti­tu­zioni ma nelle anime: demo­cra­zia come soli­da­rietà, come capa­cità di rico­no­scere nell’umanità degli altri la nostra uma­nità stessa. C’è ancora qual­cuno che lavora su questo?

Diceva un testo sacro del pen­siero libe­rale: la mia libertà fini­sce dove comin­cia quella del mio vicino: che è pre­ci­sa­mente un invito a vedere il vicino, spe­cie si diverso e nuovo, come un limite alla pro­pria libertà, come un osta­colo e un poten­ziale nemico. Io credo che dovremmo rifor­mu­larlo: la nostra libertà comin­cia dove comin­cia la libertà del nostro vicino, i nostri diritti e quelli dei migranti sono per sem­pre inse­pa­ra­bili, la libertà di tutti noi fini­sce, e comin­cia, a Lam­pe­dusa, a Ven­ti­mi­glia e a Calais.

Alessandro Portelli, Il Manifesto

 

 

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