Lettera di Natale dal Cie di Ponte Galeria
Quando arrivo a Ponte Galeria alle 5 del pomeriggio del giorno di Natale la conta della protesta è così aggiornata: nel reparto maschile ci sono ancora 4 ragazzi con le bocche cucite, in 16 hanno passato l’ultima notte fuori coi materassi e le coperte e un freddo micidiale, in 24 ancora rifiutano il cibo (cioè saltano colazione, pranzo e cena).
L’eco dello svuotamento del centro di Lampedusa e’ ancora fortissima nonché viziata da un fraintendimento: se hanno liberato loro perché non anche noi? Se lo chiedevano gli “ospiti” del centro romano e così erano pronti anche ad arrampicarsi sui tetti per ottenere lo stesso risultato… Salvo poi accettare la spiegazione: sono stati trasferiti, non liberati.
La libertà non abita le leggi italiane sull’immigrazione.
Al Cie si vede che è Natale perché c’è meno gente, meno personale ad accoglierti all’ingresso.
L’attesa ai cancelli, i primi di una lunghissima serie che fanno di quel posto un luogo di indiscutibile detenzione, dura un po’ più dell’altra volta. Ma sono sempre tutti gentilissimi, disponibili a ogni domanda.
In infermeria un ragazzo straniero si sta facendo visitare dietro il paravento: nessun problema grave e non è uno delle bocche cucite. È proprio davanti alla sala del medico che compare don Emanuele.
“Viene qui spesso?” “Non quanto vorrei, ma tutte le volte che posso. Teniamola viva questa cosa”, mi dice quel prete dallo sguardo mite e chiaro, “questo è un posto assurdo”, aggiunge.
Gli fa eco il più giovane e gentile dei ragazzi di Auxilium che già domenica scorsa mi ha accompagnata in giro per il centro, dice “è così… Anch’io quando mi chiedono che lavoro faccio alla fine rispondo il secondino, vado in giro tutto il giorno con tutte queste chiavi, apro e chiudo cancelli”.
Don Emanuele ha appena finito di celebrare una funzione religiosa nella cappella del reparto maschile del Cie: non proprio una Messa, un momento di parola e di ascolto che ha visto insieme cristiani e musulmani. Li ho trovati stanchi ma sereni mi dice e aggiunge: innocenti. Non per la legge che li ha richiusi la’ penso io.
Don Emanuele ha anche chiesto loro di allentare la tortura che si stanno infliggendo: la vostra protesta sta avendo riscontri perché è pacifica, spiega, ma scucitevi le bocche, fatelo oggi che è Natale.
E ce la fa don Emanuele a smuoverli. Arriva uno dei mediatori del Cie a dircelo, è trafelato, quasi gioioso: hanno smesso, si sono scuciti, per rispetto della vostra religione mi spiegano poi gli stessi migranti. Ma è una sospensione, non un’interruzione, pronti a ricominciare se non arriveranno risposte vere dal governo (presumibilmente, massimo due mesi di permanenza nei Cie con valore retroattivo).
La notizia ci mette di buonumore tutti.
Don Emanuele chiede della carta e una penna: vuole andare a scrivere, con i ragazzi.
Lo raggiungiamo nella sala mensa del reparto maschile: tavoli chiari come quelli delle mense degli uffici, tutti gli ospiti del centro hanno gli occhi stravolti dalla stanchezza, un paio dormono accasciati sul tavolo.
Don Emanuele scrive sotto dettato, una lettera a Papa Francesco.
Qualcuno gli detta i suoi pensieri direttamente in italiano, più spesso c’è bisogno dell’aiuto del mediatore, in fondo alla sala il piccolo rinfresco di Natale preparato dal personale del Cie ( spumante, coca cola, panettone) può aspettare.
Oggi all’Angelus Bergoglio ha parlato dei migranti di Lampedusa, dal Cie di Ponte Galeria hanno parole per lui.
“Santo Padre”, comincia la lettera.
E poi giù un collage di pensieri e richieste che messe una dopo l’altra fanno una lettera spietata, per noi, per colpa delle nostre leggi.
Tu che hai scelto il nome del Santo dei poveri, tu che ti sei voluto chiamare Francesco, noi siamo i nuovi poveri.
Alla legge non chiediamo altro che tempi umani, non vogliamo buttare la nostra vita.
Ci siamo scuciti la bocca ma è solo una pausa, per rispetto della vostra religione, siamo pronti a cucirci di nuovo, anche le palpebre (qui don Emanuele fa fatica a scrivere alla lettera ciò che vogliono i migranti).
La nostra sofferenza è arrivata all’osso, non siamo carne da macello.
Siamo venuti in Italia col miraggio di una vita migliore, finora abbiamo visto solo sbarre.
Per me i Cie sono delle piccole Auschwitz.
Alcuni di noi hanno sbagliato ma tutti hanno diritto a una seconda possibilità.
La morte l’abbiamo già vista nel nostro Paese, la morte l’abbiamo già vista in mare, possiamo anche continuare lo sciopero della fame. Fino alla morte.
In effetti, al Cie di Ponte Galeria in 24 anche stasera, e ormai da cinque giorni, hanno rifiutato la cena.