“Tocchi, molesti e lo chiami amore?”
Il diario di Silvia sul suo aguzzino
Delitto di via Aldini, spunta un blog in cui la vittima si sfogava per le continue violenze subite. Oggi l’autopsia e la probabile convalida del fermo
Silvia Caramazza si sentiva perseguitata, controllata, pedinata ogni giorno. Era sfinita da una violenza psicologica perpetrata da un amore ossessivo e non riuscendo, o non potendo, confidarsi con qualcuno si sfogava sul blog “Latte Versato”, aperto nel 2005. Le sue sono parole di denuncia, grida che si perdono nel web, e a leggerle adesso fanno venire i brividi pensando a come è finita la sua vita. “C’è una linea sottile tra il sospetto e la violenza, psicologica intendo. Va da se che rompere telefoni cellulari o computer faccia parte di una violenza psicologica ben definita anche penalmente. Ma anche tenere sotto pressione una persona facendole credere di essere controllata non è un’azione che può passare così, senza colpo ferire”.
Il suo post più recente è del 3 giugno il giorno prima di mettersi in viaggio per andare a Pavia ad incontrare un’amica, l’ultima persona che l’ha vista viva: a parte il suo assassino ovviamente, che dopo averla uccisa l’ha chiusa in un freezer. Nel blog parla di tutto. Dei suoi viaggi lontani, delle speranze in Dio, dell’amore “parola abusata, bisognerebbe trovare un sinonimo” scrive e della mancanza di coraggio nel riprendere in mano la propria vita. Ogni suo scritto, è gonfio di tristezza. Poi in poche righe dal titolo “Violenze e Violenze”, Silvia descrive ciò che la faceva stare più male. Confidenze, che solo in parte aveva rivelato alle sue amiche. Non si firma, non fa riferimenti a persone, ma descrivendo lei stessa alcune indiscrezioni uscite in questi giorni sui giornali emergono tutte le sue paure. Anzi, la sua unica paura, l’ossessione per chi le stava accanto togliendole il respiro.
“Dire a una persona ‘ti controllo il telefono e le mail tramite un investigatore’ è una pressione che a lungo andare logora e sfibra chiunque. Non sentirsi sicuri al telefono, sapere che un ex potrebbe in un futuro incerto scrivere una mail mette in allerta, anche se non si ha nulla da nascondere. Trovare telecamere in casa messe ‘per controllare se qualcuno entrà potrebbe anche essere lecito, ma se sono in casa mia e nessuno mi ha mai avvertito della loro esistenza la trovo un’intrusione altrettanto fastidiosa rispetto alle precedenti”.
Le telecamere (in realtà microspie) di cui Silvia parla sono quelle che secondo il fidanzato, Giulio Caria, principale indiziato del suo omicidio, avrebbero messo i parenti di lei per controllare la coppia ma la ragazza ha una visione diversa di come sono andate le cose, ora oggetto d’indagine da parte della squadra Mobile. Chi la sta controllando, racconta sempre Silvia, non lo fa solo tramite internet o il cellulare. “Andare a cena fuori e sentirsi dire ‘ti ho fatta seguire per sapere se quel maniaco del tuo amico ti seguivà mi pare un
arzigogolio inutile, mi hai fatta seguire? Ma siam pazzi”.
A questo punto Silvia non sa più cosa pensare, è evidente. Qualcuno la segue, non vuole che frequenti altre persone ma la donna sembra avere più timore dell’uomo che le sta accanto rispetto a un presunto terzo incomodo. Anche perché, scrive la trentanovenne concludendo il suo ultimo sfogo sul blog, “c’è un altro grado di violenza”. “Quella velatamente fisica. Se dico che non ho voglia di rapporti e mi tocchi non una, ma più volte ripetutamente, oltre a darmi un fastidiosissimo senso di repulsione, penso rientri tra le molestie sessuali. Poi mi dici che vuoi essere chiamato amore…”. Silvia chiedeva aiuto. Invano.
Alessandro Cori, La Repubblica