Il mio 25 aprile ad Affile
Pochi giorni dopo la “vittoria” sul mausoleo della vergogna, Igiaba Scego torna nel paese del generale Graziani.
All’improvviso ho sentito un gran freddo dentro di me. Non avrei dovuto. La piazza era quasi piena, la gente indaffarata, le facce sorridenti e c’era un odore di pizza fragrante che si spandeva tutt’intorno. Matteo Lollobrigida e gli altri ragazzi del comitato antifascista di Affile erano tutti impegnati nei preparativi per celebrare in letizia il 25 Aprile, la festa della liberazione dal nazifascismo. Ad Affile di fatto era una novità assoluta il 25 Aprile.
Non si era mai veramente festeggiato e per questo i ragazzi ci mettevano così tanta cura nei preparativi. Il tutto aveva un sapore così antico, così vero. Affile di fatto è stata in questi mesi una trincea moderna e lì che si è combattuta una dura battaglia per la democrazia di questo paese. Infatti, il Sacrario militare a Rodolfo Graziani, che è stato (e sempre bene ricordarlo) uno dei più feroci criminali di guerra fascisti, ha scatenato lì, e non solo lì, un putiferio. Alcuni affilani non se la sono sentita di piegare il capo ed accettare l’inaccettabile. E si sono detti che era meglio combattere con onore che morire da vigliacchi. All’inizio la loro è stata una battaglia in solitudine contro il sindaco della cittadina, Ercole Viri, che dirottando fondi pubblici aveva fatto costruire quella vergogna. Ma poi molti da Roma, da fuori Roma, dal mondo hanno cominciato a riempire di amore questi cittadini partigiani di Affile.
Ci sono stati articoli, fiaccolate, mobilitazioni, interpellanze parlamentari, petizioni, appelli. Dal New York Times al Manifesto sono stati tanti i media che si sono occupati di questa cittadina della valle dell’Aniene. E anche la politica alla fine ha risposto. Dopo tante mobilitazioni (come la petizione che la sottoscritta – coordinandosi con Cécile Kashetu Kyenge, che intanto presentava un’interrogazione parlamentare – ha lanciato su change.org, raccogliendo migliaia di firme in poche ore) il neopresidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti, ha deliberato lo stop al finanziamento di questo monumento che non faceva onore all’Italia. Una bella notizia. Un motivo in più per celebrare il 25 Aprile.
Però quel freddo non mi lasciava. I brividi attraversano tutto il mio corpo. C’era qualcosa che ancora non mi era totalmente chiaro… BRRRR perché tanto freddo? Certo era nuvoloso, ma la gente aveva abbandonato giacche e giacchette per godersi quel calore finalmente primaverile. Possibile che stesse venendo solo a me quella febbre?
Poi ho capito. Era tutta colpa del mausoleo, di quel Graziani. La prima volta che sono stata ad Affile – vuoi per il tempo, vuoi per il disgusto – non ce l’avevo fatta a vedere quel sacrario (che il mio amico Daniele Barbieri aveva ribattezzato in un articolo schifezzario). Ma questa volta stavo toccando con mano quell’orrore.
Quando le ho proposto la gita fuori porta ad Affile, Marta Bonafoni, neoconsigliera della regione Lazio e amica di sempre, mi ha detto subito con entusiasmo: «Si andiamo». Entrambe infatti volevamo renderci conto di quale mostro avessimo fronteggiato in questi mesi.
Camminando, siamo passate per un parco giochi pieno di bambini. Saltavano, urlavano, si divertivano da matti. Le mamme erano sulle panchine a chiacchierare dei loro piccoli grandi mondi. Ed è lì che ho pensato che il sindaco Ercole Viri, che ha voluto il monumento, è maestro elementare. Un pensiero, uno tra i tanti. Poi, a pochi metri, sul muro opposto, scritte oscene si contrapponevano a quell’infanzia gioiosa. Le croci celtiche dominavano il panorama e i caratteri cubitali delle scritte mettevano un po’ di angoscia. Su un muretto accanto ad un bar ho letto “squadra d’azione alessandro pavolini”. Le gambe hanno cominciato a tremare. C’era davvero ancora chi scriveva queste cose?
Ho continuato a camminare e con il gruppo siamo saliti su una specie di collinetta. Il luogo era semplicemente splendido, da togliere il fiato. Intorno a noi ulivi e beatitudine. Qualche gallinella scarrozzava felice e le formiche operaie si davano veramente un gran da fare. Poteva essere il paradiso. Però poi si alzava lo sguardo e si aveva davanti l’inferno. Lassù, infatti, c’era il mausoleo a Graziani.
Già a distanza mi sembrava molto brutto. Avevo visto molte foto, ma vederlo dal vivo mi stava facendo capire che oltre ad essere un insulto manifesto alla nostra costituzione, era anche un insulto al nostro senso artistico. Guardandolo ci si rendeva conto che quei 130 mila euro della regione Lazio giunta Polverini erano stati spesi doppiamente male, non solo per celebrare un fascista, ma anche per celebrare la bruttezza. Ah quante cose si potevano fare con quei soldi! Magari delle cooperative per i giovani d’Affile, invece l’egoismo di un sindaco e di una giunta ha prodotto quella oscenità artistica e umana.
Poi improvvisamente un “fermatevi” da parte di una signora. Era muscolosa, con mani grandi, abituate a faticare. Era la proprietaria delle galline e di qualche albero di ulivo. La signora ha cominciato a mettere in scena la sua rabbia. Era così infastidita di quel via vai di gente verso il monumento. Continuava a dire che “voi” (un voi che io ho interpretato come un vago voi comunisti) siete fissati con il passato e che dopotutto quel monumento non fa male a nessuno e che in fondo “so stili” e che insomma sto Graziani era un cristiano. Ad un certo punto entrano in scena i racconti di guerra, dei nonni ed inspiegabilmente anche Grillo, Bersani e gli aborti che lei chiamava omicidi. Era molto arrabbiata, molto confusa. Mescolava tutto.
Ed è lì che un’altra affilana le va contro e le dice che quel monumento è una vergogna pubblica, una macchia per Affile e che Affile deve essere antifascista. Le due donne si prendono a male parole. Marta Bonafoni da buon politico ascolta, altre persone non capiscono e bollano la signora con le galline come una mentecatta. Io penso che quel litigio tra le due donne rappresenti l’Italia con le sue contraddizioni, con le sue divisioni, con la sua memoria frantumata da ricostruire. Marta e io concordiamo che qualsiasi cosa si farà in futuro al monumento prima si dovrà appianare il dissidio tra gli affilani. Si deve creare dialogo in questa cittadina, fare un lavoro culturale. L’idea degli Wu Ming di colorare il monumento e dedicarlo al partigiano italo-somalo Giorgio Marincola è un’idea splendida, ma non può calare dall’alto, da noi che lì non abitiamo.
Affile si deve parlare prima, deve discutere e noi tutti con loro. Perché la tensione c’è ed è palpabile. Nel delirio di quelle parole confuse cercavo comunque di raggiungere la mia meta: il monumento. Cercavo lentamente di avvicinarmi. Ed è lì che il disegno recondito del sindaco di trasformare Affile nella Predappio del Lazio mi è apparso in tutta la sua chiarezza. Lo spiazzo, infatti, era fatto apposta per ospitare delle commemorazioni. C’erano persino delle toiletes. È lì che ho cominciato a ridere come una matta. Il monumento con la scritta patria e onore a Graziani e la struttura che ospitava i “cessi” erano di fatto identiche. Edifici gemelli. Della serie: un cesso di monumento e un monumento di cesso. E sì, il fascismo ha avuto sempre poca fantasia. E poi era bene non dimenticarlo che quella era la zona di Fiorito, della corruzione più manifesta, della volgarità al potere. Gli errori di ieri si sovrapponevano a quelli di oggi e l’orrore era servito caldo. Nel mausoleo però non c’era traccia del busto di Graziani e i quadri a lui dedicati erano stati capovolti. Si era forse voluto far sparire le prove? Chissà…
Di fatto il sindaco della cittadina era (e rimane ancora) formalmente indagato per apologia di fascismo.
Ma le tracce di quel fascismo sono rimaste nei dirupi in basso, vicini ma non troppo al monumento. Targhe ai “combattenti e coloni in A.O.I. al grande condottiero” o una inquietante “le nostra mura crollarono i nostri cuori no” firmato linea gotica 1942-43. C’era persino una scritta in tedesco piuttosto nazisteggiante. E pensare che lì proprio per mano nazista era morto un povero pastore di 25 anni, Alfredo Mariozzi, reo solo di voler far pascolare il suo gregge dove l’aveva sempre fatto. Questo l’ha spiegato Matteo Lollobrigida all’inizio della celebrazione del 25 Aprile.
L’emozione in lui era grande, gli occhi lucidi, ma c’era nei suoi occhi la scintilla dei lottatori per le giuste cause. Lui, la meglio gioventù, ci credeva. Affile poteva essere salvata. Ma mentre le celebrazioni scorrevano in letizia tra balli e canti, un signore un po’ anziano e vagamente alticcio guardava la scena con un certo disgusto. E poco prima di andarsene per i fatti suoi ha salutato romanamente chi in piazza stava per ben altri motivi. Quel saluto fascista era la prima volta che lo vedevo dal vivo. Mi si è fermato il cuore. Ho pensato: «Accidenti, il lavoro da fare è ancora tanto».
Igiaba Scego
Corriere Immigrazione