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04 Gen, 2018

Restituiamo la politica ai giovani

C’è un frastuono drammatico che rimane sullo sfondo di una campagna elettorale impegnata per ora solo a posizionare uomini e donne nei collegi giusti.

Sono i sondaggi che danno l’astensionismo dei #giovani che hanno 18-20 anni al 70%.
Non è una scelta pienamente razionale la loro, ma qualcosa di più: per i ragazzi e le ragazze semplicemente la politica è qualcosa di inutile, distante dai loro bisogni e dalla loro legittima richiesta di futuro.

Una e abnorme la mancanza più grande che attribuiscono alla classe dirigente: l’incapacità di esercitare un cambiamento, la mancata tensione a modificare in meglio la società.
E poi alla politica mancano sogni ed emozioni. Esattamente ciò di cui chi si affaccia alla vita adulta ha bisogno (e per la verità mica solo loro…).

Scrive Paolo Di Paolo che con l’arrivo del 2018 il secolo nuovo ha compiuto 18 anni, è diventato maggiorenne. Dice che è un secolo sfiduciato, ma non ancora arreso.

Sarebbe prezioso impegnarsi guardando negli occhi questi diciottenni.

29 Dic, 2017

Regione Lazio, bene approvazione esercizio provvisorio

Bene l’approvazione del rendiconto generale e dell’esercizio provvisorio. Un segno di maturità della maggioranza, unita fino all’ultimo momento di questo quinquennio.
Una decisione, che abbiamo condiviso fin da subito con il Presidente Zingaretti, ritenendo di non voler condizionare le scelte per il prossimo anno, ma lasciare alla nuova giunta la possibilità di presentare la propria proposta di bilancio entro fine Marzo, secondo il proprio indirizzo politico.
Una modalità di intendere le Istituzioni che giudichiamo rispettosa e democratica.
Con oggi si chiude un altro anno di lavoro, di cinque, che ha consentito al Lazio di raggiungere obiettivi importanti, a partire dall’uscita dal commissariamento della sanità. Un fatto non meramente tecnico, ma una boccata di ossigeno per le Asl che, come sta già avvenendo, possono sbloccare il turn over e cominciare a programmare.
Non solo quindi riordino dei conti in questi cinque anni, per una Regione che nel 2013 era stata bollata dalla Corte dei conti come fallita, ma anche è soprattutto nuove opportunità e politiche di innovazione. Ora ai cittadini il giudizio del nostro operato. E’ quanto affermano i consiglieri regionali di Insieme per il Lazio, Marta Bonafoni, Gino De Paolis, Rosa Giancola, Daniela Bianchi.

20 Dic, 2017

La Raggi è il dito la luna siamo noi: mettiamoci a lavoro per Roma

Non mi schiero fra coloro che deridono Virginia #Raggi, o in queste ore gioiscono del suo annuncio di non voler ricandidarsi per evitare il terzo mandato.

Piuttosto mi domando: ma “noialtri” cosa stiamo facendo per farci trovare pronti e adeguati quando quel giorno arriverà? Stiamo lavorando per immaginare una città diversa, che funzioni finalmente, ma che risponda a un’idea nuova di metropoli, fondata su bellezza e conoscenza ad esempio? Stiamo consumando le nostre suole per andare a parlare con tutti quegli uomini e quelle donne che ci hanno voltato le spalle l’ultima volta non intravvedendo più dalle nostre parti le risposte ai loro bisogni, alla loro domanda di uguaglianza?

Ecco, secondo me è questa l’urgenza che dobbiamo sentire. Altro che sollievo e contentezza. Al lavoro, piuttosto.

Perché Virginia Raggi è il dito, la luna siamo noi.

20 Nov, 2017

Ostia, affluenza a picco ora ripartire dai bisogni del territorio

“Dopo due anni di Commissariamento per mafia e le inchieste su criminalità e malaffare, oggi il X Municipio di Roma si è svegliato con una nuova presidente. Una presidente, quella del Movimento 5 Stelle, drammaticamente poco rappresentativa della cittadinanza perché eletta in un ballottaggio da record negativo nel quale ha votato solo il 33,60% degli aventi diritto: in pratica un cittadino su tre.
A vincere, ancora una volta, è stato dunque l’astensionismo, con un’affluenza ai minimi storici e un calo di circa tre punti rispetto al primo turno, dove a votare era andato il 36,10%.
E’ da questo dato che dobbiamo ripartire ma anche dalle tante forze democratiche che operano sul territorio, dalle nuove esperienze di governo che puntano al cambiamento, dall’antimafia sociale come perno della ricostruzione, dalle ultime manifestazioni e da una politica che dovrà dimostrare di essere capace di promuovere lo sviluppo di Ostia e al contempo di isolare mafie e malaffare. Ripartire dalle mancanze, ma anche da quanto è rimasto in sospeso, come i locali al porto turistico di Ostia sottratti alla criminalità, che la Regione Lazio ha restituito alla cittadinanza per farne una palestra sociale ma per i quali manca ancora la firma del Comune di Roma.
Un compito non facile ma necessario per restituire a Ostia e al X Municipio la narrazione che merita”. E’ quanto afferma la consigliera regionale di Insieme per il Lazio, Marta Bonafoni, vice presidente della Commissione antimafia del Lazio.

18 Apr, 2017

Populismo, teorie e problemi

Lunedì 22 maggio 2017, ore 17.30
Palazzo della cultura – Caprarola

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La parola “populismo” è una delle più utilizzate (e abusate) nel corrente linguaggio politico. Nonostante le origini piuttosto antiche del termine, esso è tornato alla ribalta soprattutto dopo la Brexit e l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, tanto che alcuni commentatori hanno messo in rilievo il processo di costituzione di una vera e propria “internazionale populista”.

Ma cos’è il populismo? Quante varianti ne esistono attualmente? La Lega di Salvini e il Movimento 5 Stelle possono essere definiti partiti populisti? E che dire dei movimenti di sinistra come Podemos in Spagna e alcune formazioni dell’America Latina?

Manuel Anselmi, sociologo, ricercatore e docente universitario, ripercorre nel suo libro “Populismo, teorie e problemi” (Edizioni Mondadori) le principali teorie sul populismo, affrontandone poi i nodi cruciali e le problematiche in relazione agli sviluppi attuali a livello mondiale. Il libro verrà presentato a Caprarola, presso il Palazzo della Cultura, il prossimo lunedì 22 maggio alle ore 17.30.

L’incontro è organizzato dalla nuova Associazione Culturale “Le città invisibili”, recentemente fondata da giovani di Caprarola con l’obiettivo di portare innovazione culturale sul territorio.

“Abbiamo cercato di partire subito con un’iniziativa di spessore. Il populismo è un tema particolarmente attuale e crediamo che debba essere indagato per capire soprattutto qual è il sostrato sociale e culturale che produce fenomeni politici potenzialmente pericolosi come quelli in corso in molti paesi del mondo”, dichiarano gli organizzatori.

Gli ospiti sono senza dubbio di altissimo valore politico e accademico. Saranno presenti infatti l’Onorevole Senatore Walter Tocci del Partito Democratico, la consigliera regionale Marta Bonafoni di Articolo UNO – Mdp, il ricercatore e autore del libro “La sinistra radicale in Europa” Marco Damiani, l’autore Manuel Anselmi e il consigliere comunale con delega alla cultura Angelo Borgna. A introdurre l’iniziativa Simone Olmati, operatore culturale e socio fondatore dell’Associazione Culturale “Le città invisibili”. L’evento, che rientra nella rassegna nazionale “Il Maggio dei Libri” sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica

10 Apr, 2017

Il “forgotten man”: quando il risentimento diventa populismo

Ezio Mauro, La Repubblica

Come se fossimo entrati all’improvviso dentro un quadro notturno di Hopper, bisogna sbirciare ogni tanto quell’uomo col cappello in testa e il bicchiere tra le mani sul bancone del bar, che è venuto a sedersi sullo sgabello di fronte, da solo sotto la luce al neon. Non parla, rimugina. Si capisce che ha un pezzo robusto di vita alle spalle, ne ha viste tante, per arrivare stanotte fin qui deve aver superato ogni illusione consumando qualsiasi speranza.

Non crede più in nulla, anzi sta in guardia, come se gli avessero tolto qualcosa: potrebbe raccontarlo ma preferisce che ognuno si faccia i fatti suoi, il suo silenzio magari farà sentire in colpa il resto del mondo. Eppure, perché ci sembra di averlo già visto? Perché è la nuova figura politica universale che attraversa l’Occidente dall’America all’Europa, il risentimento che ovunque si mette in proprio, la rabbia sociale che dappertutto si fa politica, l’outsider che infine prende il potere: o forse no, ma a lui basta aver scalciato l’establishment, buttandolo giù dal trono. Il risentimento è appagato: per il resto, si vedrà.

Poiché non abbiamo un nome nuovo, per descrivere quest’ultima creatura della mondializzazione usiamo vecchie categorie che hanno contrassegnato fenomeni antichi, antipolitica, contropolitica, ribellismo, populismo. Ma invece quel che accade è figlio legittimo della postmodernità, anzi del suo Big Bang finale tra la società aperta come mai avevamo conosciuto e la crisi più lunga del secolo.

Ad una ad una, come dopo i terremoti, cadono le vecchie case della politica novecentesca – i partiti – si spalancano i grandi contenitori culturali di tradizioni e di valori, come destra e sinistra, ripiegano e si confondono le stratificazioni sociali che davano identità collettiva, coscienza di classe, appartenenza, con un disegno di società che concedeva una dinamica interna e contemplava il conflitto.

Tra le macerie, cammina lui: il forgotten man, scartato nella crescita, ferito con la crisi, deluso dalla rappresentanza. Poiché ciò che è accaduto nell’ultimo decennio ha fiaccato le istituzioni, ha reso impotenti i governi, ha allontanato gli organismi internazionali e ha finito addirittura per indebolire la democrazia, il forgotten scopre che nell’improvvisa fragilità del sistema la sua rabbia può diventare un surrogato della politica, potente. Non riesce a proporre soluzioni, a disegnare progetti e a farsi governo.

Ma basta per presentare a chiunque il saldo di tutto ciò che non va, per chiedere conto di un mondo fuori controllo, per dare una colpa universale alla classe generale che ha esercitato il comando fino ad oggi, chiudendosi in se stessa per tutelarsi autoriproducendosi. Il risentimento non è in grado di fare una rivoluzione, creando una nuova classe dirigente.

Ma è capace di realizzare la delegittimazione di un potere debole svuotandolo, per poi affidare l’energia degli istinti a chi vuole rappresentarla incarnandola in una performance elettorale. Gli istinti naturalmente non governano: ma questo è un problema di domani, intanto oggi si scalcia.

Che cos’è tutto questo? Marco Revelli, che unisce da anni nei suoi studi la scienza della politica con l’indagine sociale, lo chiama “Populismo 2.0″ nel suo ultimo saggio Einaudi, dando una declinazione modernissima a una storia ricorrente, ogni volta che un leader cerca il cortocircuito del rapporto diretto con i cittadini esaltati a popolo mentre vengono ridotti a folla.

Ma se un tempo si presentava come malattia infantile del meccanismo democratico nascente, una specie di ribellione degli esclusi, oggi il populismo testimonia invece la patologia senile di una democrazia estenuata e svuotata da processi oligarchici, e diventa una rivolta degli inclusi, che avvertono la vacuità di questa inclusione inconcludente.

Il populismo dunque ritorna come sintomo di un indebolimento dell’organismo democratico, una febbre della rappresentanza malata. Abbiamo detto che il fenomeno è ricorrente. Ma oggi per Revelli siamo davanti a un populismo di terza generazione dopo l’esperienza russa dell’Ottocento, il qualunquismo italiano del dopoguerra: alla crisi della democrazia si unisce una crisi sociale che declassa il ceto medio, atomizza l’universo del lavoro, inverte l’ascensore sociale.

Il risultato è una rottura non tanto nel linguaggio politico – come si dice di fronte al politicamente scorretto – ma nel codice di sistema fin qui riconosciuto da maggioranze e opposizioni, con la parlamentarizzazione del consenso. Il parlamento viene anzi contrapposto alla piazza, le istituzioni vengono denunciate come la cattiva politica che le deforma, come se il contenitore fosse responsabile del contenuto e la regola dovesse dividere la colpa con chi la viola, per accrescere la feroce gioia del rogo iconoclasta che brucia senza distinguere.

Una rivolta della plebe, l'”oclocrazia” evocata da Polibio “quando il popolo ambisce alla vendetta”? Ma la massa oggi in movimento, avverte Revelli, è stata a lungo un anello forte del sistema, fattore di consenso e stabilità, altro che plebe. Scopriamo che i vituperati partiti erano “banche dell’ira”, come le chiama Peter Sloterdijk, che la intercettavano, le davano un segnale di riconoscimento e la trasponevano dentro contenitori programmatici e ideologici, convogliandola in un progetto che la decantava nella nobiltà della politica.

Oggi la rabbia sociale è allo stato brado, i nuovi leader politici si limitano ad alimentarla per cavalcarla, pensando che la materia sociale incandescente convenga per radicalità, e dunque meglio usarla come politica primordiale, rinunciando a raffinarla.

Più che a un movimento e tantomeno a un partito, siamo davanti a uno stato d’animo (e infatti parliamo di istinti e risentimenti), a un’espressione senza forma del disagio, alla manifestazione di visibilità degli invisibili: con la retorica del “popolo”, del “basso contro l’alto”, del “tradimento’ da parte delle élite, che mette anche i non poveri nella condizione psicologica di depredati, dunque di offesi, comunque di vittime, di umiliati perché esclusi, ostacolati, impediti e marginalizzati.

È la strutturazione drammaturgia di una nuova forma di conflitto politico-sociale, o addirittura culturale, vissuto come morale, dunque totale. Naturalmente il neopopulismo non è in vitro, perché ha bisogno di un ambiente storico-politico talmente particolare da risultare eccezionale e oggi lo trova nell’emergenza conclamata di tre crisi congiunte, quella economica e del lavoro, quella migratoria, quella del terrorismo jihadista. Un fenomeno da passaggio di secolo, dice Revelli, esattamente come il neoliberismo in cui si specchia simmetricamente, entrambi trasversali, impermeabili e universali.

Ovviamente tutto questo è esploso come un bengala sotto gli occhi impreparati del mondo con l’elezione di Trump, che infatti subito dopo il trionfo non ha ringraziato il Paese, l’establishment o il partito ma esattamente lui, il forgotten man, portandolo a capotavola della sua avventura.

Non solo il popolo delle campagne e gli hillbilly delle terre alte, ma un popolo disperso che per il 75 per cento denuncia il peggioramento della sua vita negli ultimi decenni e tuttavia segue il piffero di un miliardario perché più della differenza sociologica e della diffidenza ideologica pesa la dipendenza “etologica” che Revelli spiega così: un meccanismo del riconoscimento che nasce dai segni elementari, dai gesti, dai suoni e dai colori, dai modi e dalle reazioni che garantiscono nel leader la tenuta dell’odio della base, la sicurezza nell’opposizione al sistema, la comunanza nell’alterità.

A questo punto bisogna cercare i tratti comuni tra Trump e la Brexit (con i beneficiati della new economy che votano in massa per il “remain”, mentre i naufraghi della globalizzazione fanno il contrario), con la Francia di Marine Le Pen che sostituisce un neosciovinismo sociale al nostalgismo vichysta del padre, col muro sovranista di Orban in Ungheria, con gli umori neri dell’AfD in Germania, per affacciarsi infine alla fabbrica italiana di tutti i populismi.

Revelli ne identifica tre, tralasciando la virata di Salvini dall’indipendentismo padano al nazionalismo xenofobo di imitazione lepenista. Quello anticipatore di Berlusconi, una sorta di populismo geneticamente modificato dal peccato originale dell’incrocio con l’azienda, che lo trasforma in eroe teleculturale con un partito istantaneo per una “politica dell’immediato”, coprendo con la vernice moderata un’anima di destra radicale e ideologica.

Quello di Grillo, un cyberpopulismo che, dopo il declino della tv, ibrida la politica con la retorica della rete intervallata dai “V-day” nelle piazze, dove le invettive sovrastano un modello culturale intermittente e balbettante. Quello di Renzi, post-ideologico, post-novecentesco e post-identitario, pencolante tra la tentazione della lotta e la seduzione del governo, col risultato di scolorire i colori della sinistra nell’indistinto democratico di un partito-nazione.

Questo record italiano è il risultato dell'”età del vuoto”, come la chiama Revelli, che porta al grado zero della semplificazione politica, riassumibile in un “vaffa”, una ruspa, la parola rottamazione.

È un vuoto che riguarda soprattutto la sinistra, assimilata in un pensiero unico che non prevede un’obiezione culturale, spingendo la rabbia del forgotten a credere che un’alternativa sia possibile solo fuori dal sistema: mentre in realtà la vera alternativa nasce in questi mesi nella destra populista, che attacca il pensiero liberale, il concetto stesso di Europa e di Occidente.

Ci dev’essere il modo di parlare a quell’uomo che sta nel bar da solo, prima che arrivi Trump a portarselo via. Ci dev’essere un

pensiero democratico in grado di convincere l’operaio col casco giallo davanti a un grattacielo a Londra, che nello schermo della Bbc spiega il Brexit con un semplice gesto della mano: “Quelli lassù hanno votato per restare nella Ue, noi quaggiù per uscire”.

10 Feb, 2017

Pisapia e il Campo Progressista

“Oggi Pisapia sul Corriere della Sera lancia Campo Progressista.
Una forza nuova, perché realmente collettiva.
Che non parla al ceto politico, ma lascia parola: alle associazioni, al territorio, ai sindacati, alle tante energie sparpagliate. A sinistra.
Che non punta a mettere un dito nell’occhio del vicino, ma pensa a quello che può fare partendo da se.
Con rispetto per tutti”.
Corriere della Sera, Aldo Cazzullo

Pisapia, ci siamo?
«Sì. Come avrebbe detto qualcuno: scendo in campo di nuovo. Ieri a Milano, oggi in Italia».

Fonda l’ennesimo partito?
«No: ce ne sono già troppi. Mi metto al servizio di un impegno politico collettivo. Il protagonista non sono io. Sono loro: le associazioni che lavorano sul territorio, le amministrazioni locali, il volontariato laico e cattolico».

Avranno pure bisogno di un nome.
«Campo progressista. Un progetto del tutto nuovo, che nasce con una grandissima ambizione: offrire altro, rivoluzionare la politica, cambiarla nel profondo. Vogliamo unire storie e percorsi diversi e costruire una casa comune, per riunire chi vuole fare qualcosa per la società e non trova il modo».

Diranno che fa la stampella di Renzi e del Pd.
«Non ho mai fatto la stampella di nessuno, e a Renzi ho sempre detto quello che pensavo. Ho il mio lavoro, non ho ambizioni personali. Nel 1998 mi dimisi da presidente della commissione Giustizia della Camera dopo la caduta di Prodi. Più volte ho rifiutato di fare il ministro. Ho fatto un passo indietro dopo la vittoria storica di Milano, dove da vent’anni governava la destra, e dopo cinque anni di governo unitario, con la massima radicalità sui valori e il massimo pragmatismo».

Perché ora ci ripensa?
«Quest’estate ho girato l’Italia e sono andato a incontrare le tante persone che mi avevano scritto. Sono stato nelle grandi città e in paesi che non sapevo esistessero. Ho scoperto che esiste un mondo ricchissimo. Mi fermavo a fare benzina, e nel tempo di fare il pieno e prendere un caffè arrivava il sindaco per parlarmi del suo Comune. A Roma mi dicevano: “Venga qui a fare il sindaco…”. Ho incontrato persone straordinarie».

Chi?
«Enzo Bianchi mi ha detto: “Lei si butti se viene chiamato”. E mi hanno chiamato in tanti. Non ceto politico; persone alla ricerca di una speranza. Studenti e professori italiani a Londra e a Coventry mi hanno invitato a presentare il progetto. Ricercatori all’estero come Giacomo Pirovano mi hanno assicurato che sono pronti a tornare in Italia per impegnarsi. Associazioni culturali, ambientalisti, volontari di Merate, Biella, Monopoli, Lecce… La questione dei giovani è la nostra priorità. Come diceva Vittorio Foa: “Pensare oltre che a se stessi, agli altri; oltre che al presente, al futuro”».

Chi c’è nel suo pantheon, oltre a Foa?
«Don Milani. Avevo 17 anni quando partii sulla 500 di un amico per andare a Barbiana a conoscerlo. Stava già molto male. I suoi mi regalarono la Lettera a una professoressa e L’obbedienza non è più una virtù: li tengo sempre qui, sul leggìo sopra il tavolo di casa. E poi i leader storici che il campo progressista ha espresso nelle varie epoche, da Berlinguer a Obama».

Più modestamente, con Bertinotti ha parlato?
«Ho sempre avuto stima per la sua onestà intellettuale, ma non lo sento da quando eravamo alla Camera».

E la Boldrini?
«Siamo in ottimi rapporti. Saremo insieme a Milano a un incontro sulla buona politica, il giorno di san Valentino».

Quali sono i prossimi passi?
«Faremo iniziative in diverse città, anche con sindaci e amministratori di piccoli e grandi Comuni. L’11 marzo faremo il primo grande incontro nazionale, a Roma. Poi apriremo le Officine per il programma».

E Sel? Vendola?
«Sel si è divisa e si è sciolta. Il mio amico Nichi pensa che non sia più possibile costruire un centrosinistra con un Pd geneticamente modificato, scambiando Renzi con il popolo del Pd. Io la penso diversamente. Rispetto la sua posizione; chiedo rispetto per la mia».

Crede davvero che ci sia spazio per una forza di sinistra alleata con il Pd?
«La prospettiva è più ambiziosa: spostare il Partito democratico a sinistra. Per necessità numerica, il Pd è stato costretto a governare con forze che non erano né di sinistra né civiche. È il momento di andare oltre».

Mai con Alfano?
«Noi vogliamo essere l’embrione del nuovo centrosinistra; non possiamo stare con un partito di centrodestra. Rispetto Alfano, ma dai diritti civili alle politiche per i giovani siamo diversi».

Non crede che un elettore di sinistra deluso da Renzi voti più facilmente per Grillo che per lei?
«A Milano i grillini sono attorno al 10%. In tanti mi hanno chiesto come sono riuscito a non farli emergere. Il modo è fare le cose positive di cui i grillini parlano».

L’onestà?
«Quello è un presupposto. Intendo trasparenza, legalità; mettere a disposizione di tutti i beni comuni. Questo a Milano l’abbiamo fatto. La demagogia e il populismo si contrastano così. Anche con il coraggio di dire che non sei d’accordo, anziché dare sempre ragione a chi urla. Ora siamo a un bivio: o riusciamo a fare una coalizione che dia risposte ragionevoli alla questione sociale; oppure lasciamo il Paese a Grillo e alla destra».

Oggi nessuna coalizione avrebbe i numeri per governare. Campo progressista quanto può valere?
«Non lo so. Ma penso che l’alleanza tra il Pd, noi, le liste civiche, gli ecologisti possa arrivare al 40%. Certo, dipenderà se la legge elettorale consentirà le coalizioni. Siamo una forza autonoma; non possiamo certo entrare in una lista con il Pd».

Lei è ottimista. Molti elettori, anche milanesi, sono arrabbiati e indignati con i politici e i loro privilegi.
«Li capisco. Sono da sempre convinto che lo stile di vita sia importante. Per questo con i miei assessori ci muovevamo in autobus, a piedi, in bicicletta. Anche di notte andavo con la mia auto privata in periferia o nelle parrocchie dove mi invitavano; per gli impegni istituzionali avevo un’auto ibrida vecchia di 15 anni».

E adesso?
«Vado a piedi e uso il car sharing. Sono imbarazzato a chiamare un taxi perché spesso mi tocca discutere con il tassista che non vuole farmi pagare».

Cosa pensa del suo successore Sala?
«È diverso da me. È un manager. Ma sui punti principali segue la nostra esperienza. Molti assessori sono stati riconfermati. I progetti sono quelli. L’alleanza di centrosinistra è ampia e legata al civismo».

E di Renzi?
«Ha lati positivi: coraggio e, all’inizio, capacità innovativa. Ha portato a termine riforme ferme da decenni, a cominciare dalle unioni civili; ma ha anche sbagliato sul referendum e su altre riforme che si sono trasformate in controriforme, ad esempio sul Jobs Act. Dovrebbe ascoltare di più. E non ha capito che i corpi intermedi sono importanti; a cominciare dai sindacati».

La Cgil era per il No. Lei non si è pentito di aver votato Sì?
«Non mi sono pentito. Anche i miei amici mi dicono: “Chi te l’ha fatto fare? Appoggiando il No avresti avuto una prateria a sinistra”. Ma preferisco essere coerente con la mia coscienza. Per me non era un voto su Renzi; era un giudizio su una riforma che non condividevo appieno, ma portava cose positive. Sul Titolo V: abbiamo una sanità del tutto diversa da una Regione all’altra. E sull’obbligo per il Parlamento di esaminare le leggi di iniziativa popolare: come la proposta della Cgil per limitare i voucher al lavoro occasionale».

Con D’Alema vi parlerete?
«Io parlo con tutti. Ma quello che mi interessa è recuperare i milioni di voti persi tra gli elettori di centrosinistra. E far appassionare i giovani a una nuova politica».

Ci sarà la scissione?
«Non me la auguro; ma certo non dipende da me. L’importante è che il Pd capisca di non essere autosufficiente. Occorre una svolta che guardi a sinistra. Una forte discontinuità, rispetto a una stagione in cui i democratici erano costretti ad accordi con Alfano e anche con Berlusconi».

Guardi che già si parla di alleanza con Berlusconi nella prossima legislatura.
«Per me sarebbe impossibile appoggiare un governo di larghe intese».

Quando si dovrebbe votare secondo lei?
«Sarebbe bene portare a termine le riforme già avviate: ius soli, reddito di inclusione, norme per non far fallire le società confiscate alla mafia, limiti ai voucher. Se mancasse la volontà, meglio andare a votare. In ogni caso i tempi saranno lunghi, perché serve una nuova legge elettorale».

Quale?
«L’importante è che sia omogenea tra Camera e Senato, e consenta ai cittadini di scegliere i loro rappresentanti. Anche con le preferenze»