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05 Mag, 2017

Sono io quella ragazza

Carlotta Cossutta, Comune-info

Sono io quella ragazza sola che deve essere difesa dal degrado in stazione centrale. Negli ultimi anni ho preso più treni che tram e ho attraversato la stazione all’alba e a notte fonda… E l’ho vista cambiare: prima sono arrivati i militari, poi le barriere ai binari, poi i cancelli.

Mi sono vista passare tutti i controlli forte della mia pelle bianca e dei miei vestiti borghesi, mentre dietro di me ragazze nere venivano fermate e apostrofate malamente perché non parlano italiano (e per favore, non ditemi che questo non è razzismo); mi sono sentita fischiare dietro dai militari e sono stata aiutata a rialzarmi da una caduta sulla bici da un ragazzo arabo che giocava a carte; ho ricevuto un’offerta di erba e due proposte di matrimonio; ho assistito a una rissa e ho visto due fratelli eritrei guardare con gli occhi sgranati mia sorella che cercava di capire se avessero la scabbia….

Sono io quella ragazza sola e non vi permetterò di usare il mio corpo come paravento per operazioni come quella di martedì 2 maggio…

04 Mag, 2017

Nian, senegalese morto in un blitz: vittima del decoro

Mario Di Vito e Rachele Gonnelli, Il Manifesto

Si può morire di decoro, crollando a terra a pochi passi dal Lungotevere e dalle vetrine di design. Si può morire in uno sbocco di sangue dopo aver passato ore e ore trascinandosi dietro un borsone nero pieno di finte pochette di marca a nascondersi dai vigili urbani della squadra dei Falchi, mobilitati per la prima grande retata anti ambulanti dell’era Minniti lanciata ieri mattina nel cuore di Roma con l’ausilio anche di un elicottero: in pratica una caccia all’uomo da far invidia alle battute padane alla ricerca del terribile Igor il Serbo. Può succedere soprattutto se questa vita la fai da trent’anni.

SI CHIAMAVA Nian Maguette, aveva 54 anni, originario della regione di Louga in Senegal, si guadagnava da vivere, per sé e per i suoi tre figli, facendo il venditore ambulante, due li aveva portati in Italia e l’altro era rimasto in Senegal con la madre. È morto intorno all’ora di pranzo sul marciapiede di via Beatrice Cenci, all’ingresso del Ghetto, dopo aver passato la mattinata a scappare dal blitz contro l’abusivismo nella zona intorno all’antico Ponte Fabricio, di qua e di là del fiume. Le testimonianze sugli ultimi attimi in vita di Nian divergono: alcuni testimoni sostengono che l’uomo sia stato inseguito da una moto della municipale, forse investito e abbia sbattuto la testa. Altri invece riferiscono che l’ambulante stesse barcollando per la strada fino a quando si è accasciato ed è morto così, lasciando per terra una macchia di sangue densa e estesa ancora ben visibile diverse ore dopo i fatti.

IL NEGOZIANTE che lo ha visto attraverso la vetrata accasciarsi riverso a terra con le braccia in avanti dice di aver pensato inizialmente a uno svenimento. Una passante ha chiamato il 118 e gli infermieri hanno provato in tutti i modi a rianimarlo, inutilmente. Quando Nian è stato alla fine coperto da un telo dorato, del tutto simile a quelli dati ai migranti salvati in mare, gli altri venditori senegalesi fuggiti nelle stradine attorno, si sono radunati e hanno inscenato un mini corteo di protesta. Sono stati dispersi dalla celere a colpi di manganello nel giro di pochi minuti. È probabile che nei prossimi giorni la comunità senegalese di Roma organizzi una manifestazione per chiedere verità e giustizia.

GLI UOMINI DELLA POLIZIA cittadina, poi, hanno anche portato in centrale un ragazzo senegalese che, pur non essendo un testimone oculare, stava riportando ai cronisti le voci sull’inseguimento tra i vigili in moto e Nian. Gli uomini della polizia locale l’hanno interrotto a metà racconto, intimandogli in maniera perentoria di seguirlo in commissariato per mettere agli atti la sua versione. A trattare sul punto sono arrivati anche due giovani avvocati, che, dovesse essercene il bisogno, proveranno a prendere in carico il caso.

Il sostituto procuratore Francesco Paolo Marinaro ha aperto un fascicolo d’inchiesta, per ora senza ipotesi di reato né indagati, in attesa delle informative della municipale e, soprattutto, dei risultati dell’autopsia che è stata disposta sul corpo di Maguette.

I RAGAZZI DELLA COMUNITÀ senegalese raccontano che Nian era in Italia da trent’anni, viveva sulla Prenestina e cercava di sfamare la sua famiglia vendendo borse per le strade della Capitale, riuscendoci peraltro a stento. «Era un uomo buono che lavorava davvero per un pezzo di pane – racconta Diop, 35 anni, prima di essere portato in commissariato –, non riusciva nemmeno a mandare i soldi in Senegal, dove ha un altro figlio. Cercava di tornarci spesso, l’ultima volta sarà stato due o tre mesi fa».

I VIGILI, per bocca del vice comandante Antonio Di Maggio, negano ogni addebito: «Non esiste alcun coinvolgimento diretto tra l’operazione antiabusivismo e il decesso del cittadino senegalese».
Intanto, sulla pagina Fb del corpo di polizia locale di Roma Capitale si esulta per il successo del blitz: sequestri e multe per trentamila euro, somme che verosimilmente non verranno mai pagate. Con l’aggiunta della foto della catasta di borsoni di merce requisita, si rileva come la presenza dei venditori abusivi risultasse «dannosa anche dal punto di vista del decoro urbano in un sito sottoposto a vincolo paesaggistico». Nemmeno un accenno a Nian Maguette, morto di decoro.

03 Mag, 2017

L’ultimo sorriso di Valentino Parlato

«Valentino sorride». Ai parenti, agli amici e ai compagni di una vita che per primi sono accorsi all’ospedale Fatebenefratelli appena appresa la notizia della sua morte, Valentino Parlato sembra riservare uno dei suoi più ironici sorrisi.

Se n’è andato ieri mattina intorno alle 10, ad 86 anni, il fondatore e più volte direttore del manifesto, dopo una notte di coma e ventiquattr’ore di ricovero. Lieve, come è sempre stato.

Sono arrivati in tanti ad abbracciare sua moglie Delfina Bonada e i suoi figli, Enrico, Matteo e Valentina. Ma sono i più intimi: nessuna presenza istituzionale, nessun saluto formale. Lacrime, sorrisi, abbracci. Tra gli amici di una vita, i compagni della vecchia e della nuova “famiglia comunista”, quelli del collettivo del manifesto degli esordi e dell’attuale.

Si stringono tutti attorno a Luciana Castellina, la «sorella» con la quale Valentino Parlato ha condiviso oltre mezzo secolo di storia. Attoniti, Aldo Tortorella, l’amico di sempre, Chiara Valentini, Gianni Ferrara, Filippo Maone, Famiano Crucianelli, Enrico Pugliese, Luigi Ferrajoli, Vincenzo Vita, Nichi Vendola, Adriana Buffardi, Lia Micale.

Massimo D’Alema entra nella piccola sala mortuaria dell’ospedale sull’Isola Tiberina per un saluto, commosso al ricordo di quella figura che gli appariva quasi mitica quando, all’età di dieci anni, lo incontrava in casa, ospite dei suoi genitori. Fu allora che cominciò ad ammirarlo.

«Sono qui come amico e come compagno, ma soprattutto perché mai come oggi l’Italia avrebbe avuto bisogno di eretici come lui», dice commosso un anziano signore piegato sul bastone che vuole essere identificato solo come Guido, «uno che fa pasquinate». «È stato tra i migliori uomini del Novecento», sospira il professor Michele Padula che fece parte del collettivo del manifesto fino al 1978. «Tra le tante virtù che aveva Valentino, ve n’era una specifica politica e una umana – ricorda Padula – Era attento alle questioni sociali, oltre che economiche, e aveva la capacità di cogliere nel Mezzogiorno le contraddizioni moderne e quelle del passato. Ma soprattutto Valentino sapeva accogliere le persone. Non con le parole, a lui non servivano: lo faceva con la sua stessa presenza».

Nelle ultime settimane aveva finalmente cominciato a lavorare su un progetto a cui aveva pensato a lungo: un libro sulla sua terra natia, la Libia. Lo avrebbe scritto insieme al suo secondogenito, Matteo, giornalista Rai. Da Tripoli, dove nacque il 7 febbraio 1931, venne espulso a vent’anni, reo di aver tentato di fondare il Pci tripolino.

«Avevo 16 anni quando nei primi anni ’50 tentammo di aprire una sezione del Pci a Tripoli, insieme ad un professore di greco e ad un compagno arabo», racconta l’economista e giornalista Enzo Modugno, che si definisce «un compaesano» di Parlato. «Purtroppo la polizia se ne accorse e loro furono espulsi. Io no perché ero minorenne. Quando Valentino arrivò a Roma, Togliatti gli diede un posto a Botteghe oscure. Lo rincontrai solo molti anni dopo».

Si sono riabbracciati qualche mese fa, durante la conferenza di Roma sul comunismo e le celebrazioni del 1917, nel centro sociale Esc. «Era tra i migliori giornalisti d’Italia – s’infervora Enzo Modugno – Altro che Bocca e Montanelli!. A loro una volta mandò a dire: “Questa borghesia è illuminata finché qualcun altro paga la bolletta della luce”».

L’ultimo saluto

Chi vorrà dare l’ultimo saluto a Valentino Parlato potrà farlo ancora questa mattina dalle 8 alle 12 presso la morgue dell’ospedale Fatebenefratelli, sull’Isola Tiberina. Dalle 15 di venerdì 5

02 Mag, 2017

Sì, dobbiamo avere di nuovo paura della guerra

Bernard Guetta, L’Espresso

Sì, dobbiamo avere di nuovo paura della guerra.
Stiamo attenti a non abituarci all’idea. Guardiamoci bene dalle profezie che si autoavverano, anche se c’è indubbiamente nell’aria un sentore di guerra, una sensazione sempre più forte di qualcosa che sta per precipitare, quasi un bisogno di venire alle mani per stabilire, una volta per tutte, i rapporti di forza in questo mondo che fa così paura perché non lo si comprende più.

La situazione in cui ci troviamo non si è creata in un giorno. È il portato di una lenta e lunga evoluzione, quasi impercettibile. Ma se dovessimo datare questo cambiamento d’epoca potremmo farlo risalire alla primavera del 2014. Nel marzo di quell’anno, la Russia annette la Crimea ucraina. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, una potenza europea annette il territorio di un’altra potenza europea e la Russia comincia subito a fomentare, armare e finanziare un movimento di secessione dell’Ucraina orientale, ancora attivo.

Si può sostenere che la Crimea era stata russa fino al 1954, che l’Ucraina orientale è tanto russa quanto ucraina e che il Cremlino temeva che un riavvicinamento tra l’Ucraina e l’Alleanza atlantica gli facesse perdere la base navale di Sebastopoli. Ma si potrebbe ribattere che la Crimea era stata ottomana prima di diventare russa e che comunque è essenzialmente tatara, anche se resta il fatto che vi è stata un’annessione, in violazione di tutte le leggi.

Un tabù essenziale è stato violato e le conseguenze, anche se ovviamente meno visibili di un conflitto aperto, come quelli in corso nel Medio Oriente, sono devastanti. Gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno applicato sanzioni economiche contro la Russia che ne risente quanto i paesi occidentali.

Spaventati da questo precedente, i tre Stati baltici e la Polonia hanno ottenuto dalla Nato un rafforzamento della sua presenza nei propri territori. Al confine orientale dell’Unione europea, russi e occidentali ora si fronteggiano e lungo le sponde del Baltico la paura della guerra è tanto più reale quanto più l’aviazione russa lancia provocazioni quotidiane.

L’annessione della Crimea ha segnato una vera svolta perché Vladimir Putin ha scelto di risolvere con un fatto compiuto militare quello che considerava come un problema di sicurezza nazionale. Non uno ma due tabù sono caduti così di colpo e, in corrispondenza al ricorso alla forza da parte della Russia, vediamo oggi Donald Trump che invia una portaerei verso le coste coreane dopo aver fatto annientare una base dell’aviazione militare di Bashar al-Assad in Siria.

Sarebbe stato, certamente, orribile se, ancora una volta, il macellaio di Damasco avesse potuto usare impunemente armi chimiche contro il suo popolo. Ed è bene che l’“Ubu roi” nordcoreano sappia che non è più libero di fare qualsiasi cosa. Ma, ancora una volta, si è acceso un dibattito poiché il presidente americano ha bombardato la Siria senza un mandato delle Nazioni Unite e le sue gesticolazioni al largo della Corea possono scatenare una dinamica incontrollabile il giorno in cui Pyongyang decidesse di effettuare un nuovo test nucleare.
Dopo Mosca, anche Washington torna a ricorrere all’uso della forza come strumento politico. Entrambe le capitali lo fanno apertamente, senza imbarazzo e in modo tranquillo. E non è tutto. Perché i dirigenti cinesi fortificano e trasformano in basi militari degli isolotti contesi e disabitati del Mar Cinese Meridionale?
La risposta, limpida, evidente, è che il paese più popoloso del mondo vuole intimidire in questo modo i suoi vicini e Taiwan innanzitutto, dimostrando loro che non teme nessuno ed è la potenza dominante e assolutamente imprescindibile del continente asiatico, e forse, un giorno, anche del Pacifico.

Al pari di Washington e di Mosca, Pechino conta sulle sue forze armate il cui budget aumenta, rapidamente, ogni anno. Il grande sogno “onussiano” di un parlamento delle nazioni dove si potrebbero risolvere tranquillamente i conflitti sembra più che mai evanescente e i paesi dell’Unione europea cominciano a prendere in considerazione la creazione di una difesa comune e un aumento della loro spesa militare. Il fatto che si sentano costretti a imboccare questa strada è un segno dei tempi, poiché di fronte a una protezione americana ormai incerta, al riemergere di tensioni a Est e al caos del Sud, devono contare sulle proprie forze.

Si potrà dire che non c’è niente di nuovo sotto il sole ed obiettare che non si vedono progressi in questo senso. Ma durante tutto il periodo della guerra fredda, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti non avevano fatto altro che moltiplicare le loro testate nucleari arrivando a un passo dalla distruzione del mondo all’epoca della crisi dei missili di Cuba. E se alla fine hanno evitato uno scontro diretto, non hanno cessato di combattere guerre per procura, dal Vietnam all’Afghanistan, passando per l’Africa e l’America Latina.

È vero. Noi non usciamo da un’epoca di pace e di armonia planetaria, ma tra i decenni che hanno preceduto la caduta del muro di Berlino e quelli successivi, fra queste due epoche, le differenze sono così grandi che cambiano la situazione.

Nell’era sovietica, la Russia si estendeva entro i confini dell’Impero che gli zar avevano costruito e si proiettava verso l’Europa centrale che Stalin aveva annesso. Oggi la Russia resta il paese più esteso del mondo ma, tralasciando la Polonia che aveva cancellato dalla carta geografica nel XIX secolo, ha perso l’Asia centrale, la maggior parte del Caucaso e l’Ucraina, la culla da cui è nata più di mille anni fa.

Soffre ancora i dolori di queste amputazioni. Ed è in preda a una febbre revanscista. Nelle ex repubbliche sovietiche, diventate oggi Stati indipendenti, può far leva, come in effetti accade, sulle minoranze russe e di altre etnie che si erano insediate in questi territori in epoca sovietica e già ancor prima sotto gli zar.

La questione russa, che è essenzialmente una questione di frontiere, ha continuato a creare tensioni e, parallelamente, in Asia, un intero continente è emerso da un lungo letargo, si è affermato economicamente e, come l’Europa di ieri, sta cercando un equilibrio tra le sue grandi potenze. Paralizzata dalla Cina come l’Europa lo era stata dalla Francia di Luigi XIV e di Napoleone, l’Asia cova dei conflitti che ribollono nel Mar della Cina. E poi ci sono i mondi musulmani.

Ma la realtà più inquietante non è quella dell’Isis e del terrorismo islamista, che continuerà a colpire. Nessuna città, nessun paese, nessun continente ne è al riparo, ma l’Isis, già molto indebolito, non è invincibile, mentre il Medio Oriente sta entrando in una Guerra dei Cent’anni in cui s’intrecciano un braccio di ferro millenario fra le sue potenze, la religione e il crollo delle frontiere coloniali. Per dividere e regnare, Francia e Gran Bretagna avevano disegnato, sulle macerie dell’Impero Ottomano, degli Stati in cui dovevano convivere le differenti religioni dell’Islam e del cristianesimo, per non parlare dei drusi, dei curdi o degli yazidi. La guerra fredda aveva consolidato questi confini, perché i due blocchi dividevano anche il Medio Oriente, ma oggi che non c’è più il colonialismo né il bipolarismo, la realtà riprende il sopravvento.

Tutti vogliono vivere in casa propria, perché tutti vogliono prendere possesso del loro destino. Gli Stati postcoloniali si stanno sgretolando e questo tanto più velocemente quanto più la rinascita della Persia sotto le spoglie del moderno Iran rinfocola la rivalità tra le due correnti religiose dell’Islam, i sunniti e gli sciiti, e rimette in contrapposizione la potenza araba con quella persiana.

Dall’Asia al Medio Oriente passando per l’area russa, la fine della guerra fredda ha risvegliato innumerevoli conflitti rimasti a lungo congelati. Stiamo vivendo i primi sussulti della gestazione di un nuovo mondo e le paure che suscitano si aggiungono a quelle generate dalla globalizzazione economica, con le sue delocalizzazioni di imprese, le sue nuove forme di concorrenza e la conseguente pressione che essa esercita sui redditi e i sistemi di protezione sociale dei lavoratori salariati occidentali.

Il sommarsi di queste paure ha prodotto, a sua volta, un ritorno dei nazionalismi e delle destre estreme negli Stati Uniti, in Europa e in Asia. Quasi il 22 per cento dei francesi ha votato per la Marine Le Pen in Francia. Questo non le basterà per conquistare la presidenza della repubblica, ma è comunque un grande risultato e figure politiche a lei simili sono già al potere a Washington e Nuova Delhi, a Mosca e Gerusalemme, a Pechino, Budapest e Varsavia. Il nazionalismo è una tendenza sempre più diffusa in questo inizio dei secolo. Ma il nazionalismo è la guerra.

Traduzione di Mario Baccianini

28 Apr, 2017

“Sospetti, fango e ombre danneggiano il nostro lavoro. Noi salviamo vite umane”

Andrea Pasqualetto, Corriere della Sera

Gabriele Eminente, lei dirige Medici senza Frontiere Italia, che opera nei soccorsi in mare con due navi. Il procuratore di Catania dice che alcune Ong potrebbero essere finanziate da trafficanti, Cosa ne pensa?
“Il procuratore ha il diritto di portare avanti la sua indagine e noi non abbiamo alcuna intenzione di interferire. Ma dobbiamo respingere qualsiasi illazione riguardante il nostro lavoro. Medici senza frontiere non ha alcun contatto con questi criminali e men che meno è finanziata dai trafficanti”.

27 Apr, 2017

Le donne salveranno il Belpaese

Linda Laura Sabbadini, La Stampa

C’era una volta una Italia con tanti bambini e ora non c’è più e neanche nel 2065 secondo l’Istat. Il futuro demografico del Paese non è roseo, la popolazione va verso la diminuzione, forte invecchiamento, soprattutto al Sud che avrà sempre meno giovani e bambini e si svuoterà, bassa fecondità. I dati dell’oggi e del domani sono scritti nella nostra storia, ed erano evidenti da anni, L’invecchiamento della popolazione dipende da due fattori. Si vive più a lungo, quindi cresce la popolazione anziana e si fanno meno figli, quindi diminuisce la popolazione giovane.

26 Apr, 2017

L’ultimo appello di Pisapia: “Renzi, il tempo è scaduto: unisci la sinistra o è la fine”

Stefano Cappellini, La Repubblica

Quando Giuliano Pisapia, solo pochi mesi fa, si è mosso in prima persona per contribuire alla rinascita di un centrosinistra largo, Barack Obama era ancora alla Casa Bianca, la Gran Bretagna nella Ue e il Pd unito sotto lo stesso tetto. Il tempo fugge e, secondo Pisapia, quello a disposizione della sinistra italiana per darsi un assetto coerente alle nuove sfide globali sta per scadere: “Le elezioni francesi – dice l’ex sindaco di Milano a Repubblica – ci ricordano che la sinistra divisa va incontro a un solo destino: la sconfitta. Se le primarie lo confermeranno segretario del Pd, a Matteo Renzi resta meno di un mese per dare un segnale chiaro: cambiare la legge elettorale e costruire una coalizione. Altrimenti il centrosinistra andrà incontro a una sconfitta che definirei generazionale, perché ci vorrà appunto una generazione prima che si possa ricostruire la fiducia e la partecipazione del proprio elettorato”.

Renzi non ha dato alcun indizio di voler andare in questa direzione.
“Gli indizi non sono favorevoli, ma credo ancora alla possibilità di una svolta. Sono favorevole al Mattarellum. Se però non ci sono i voti in Parlamento, può funzionare anche il sistema che il Pd ha proposto in commissione: collegi e premio di maggioranza moderato. Purché si chiarisca se il premio va alla lista o alla coalizione. Serve il secondo, se si vuole mettere in campo una alleanza larga di centrosinistra”.

La tesi dell’alleanza larga è degli sfidanti di Renzi alle primarie. Fa il tifo per loro?
“Non sono iscritto al Pd, sono uno spettatore interessato perché, senza i dem, per l’Italia non c’è un futuro di centrosinistra. Spero che, chiunque sarà il nuovo segretario, non stravolga la storia di un partito che nel tempo è cambiato ma il cui elettorato non ha mai rinnegato il suo essere di sinistra”.

La sinistra è fresca di scissioni a catena. Come si riunisce chi si è appena lasciato?
“Ascoltando la domanda di unità che proviene dalla base. Esiste una sinistra ragionevole, un mondo che non ha paura della sfida di governo, e che insieme a voci civiche, ambientaliste e moderate al Pd dice: alleiamoci su un progetto per il Paese o sarà la fine. Ha sentito cosa ripete in queste ore Romano Prodi? Io confido che Renzi raccolga questo appello”.

Altrimenti?
“Altrimenti questo stesso mondo dovrà trarre le conseguenze e attrezzarsi a dare una rappresentanza autonoma alle proprie idee. Ma il rischio concreto è che, da questo quadro esploso, esca la peggiore sconfitta degli ultimi decenni”.

È pronto a essere il candidato premier di uno schieramento a sinistra del Pd?
“Non sono sceso in campo per questo né per fondare partitini del 3 per cento. Senza un’intesa anche con il Pd, si porrà presto il tema della leadership. Un passo alla volta”.

In Francia sono fuori dal ballottaggio sia il socialista Hamon che il più radicale Mélenchon. In Gran Bretagna Corbyn pare fuori dai giochi. In Spagna i socialisti hanno perso a ripetizione. La sinistra è in crisi irreversibile?
“La sinistra, ovunque, quando si divide perde. I partiti tradizionali non riescono ad avere la fiducia degli elettori. Ma se si sommano i voti di Mélenchon, che non è estremista, a quelli socialisti, si ha la prova che il campo di centrosinistra è tutt’altro che sparito.

La sinistra è vista da una parte di opinione pubblica come un pilastro dell’establishment responsabile della crisi. A ragione?
“In parte sì. In Italia, in particolare, ha restituito l’immagine di una nomenclatura chiusa. Per troppi anni gli elettori hanno visto le stesse facce scambiarsi ruoli all’interno del gruppo dirigente. È mancato un ricambio e la volontà di agevolarlo. Io, da sindaco, avevo in giunta ragazzi di 28 anni che spesso mi facevano riflettere sul valore di questioni che non avevo gli strumenti per capire”.

Le speranze di fermare Marine Le Pen sono affidate al centrista Macron, sostenuto da un elettorato trasversale. Non teme che questo scenario francese dia nuovi argomenti a chi sostiene che, per battere Grillo e Salvini, occorre un fronte dei “responsabili” anche in Italia?
“Mi sembra il contrario. A parte la differenza di sistema elettorale, la ragione fondamentale è politica: è un grave errore dire che il discrimine fondamentale non è più tra destra e sinistra. Innanzitutto perché non è vero e poi perché non offre chiarezza. Ci sono due possibili ordini di risposte ai problemi di fondo, dalla povertà alla crescita: quelle della destra securitaria e parolaia e quelle di una sinistra responsabile e pragmatica”.

La manovrina di primavera racconta che il governo di sinistra non riesce a districarsi tra il rigorismo europeo e la volontà di metterlo in discussione.
“In questo caso le notizie dalla Francia sono positive. Macron è un’europeista convinto ma critico. Le regole europee vanno rispettate, ma cambiate quando è necessario. A settembre si voterà in Germania, e se come pare il presidente Schulz avrà un buon successo, potrà esserci un fronte compatto per modificare le regole di Bruxelles. Non per distruggere quello che si è costruito in 70 anni, ma per rispondere alla crisi più drammatica dell’economia dal 1929”.

Su molti temi, anche i 5S – già simpatizzanti di Trump – coltivano posizioni affini a Le Pen: sovranismo, protezionismo, polemica dura sui migranti. C’è differenza tra il populismo lepenista e quello grillino?
“La differenza c’è e si vede. Credo che moltissimi sostenitori del M5S sarebbero furibondi all’idea di essere assimilati ai lepenisti. Il 5Stelle è un movimento trasversale, nato da posizioni in parte condivisibili e capace, come nel caso del testamento biologico o delle unioni civili, di sposare posizioni molto avanzate”.

Ma con i 5S è ipotizzabile un asse di governo, come evoca Pier Luigi Bersani?
“Un accordo strutturale no. Sui singoli temi, è possibile una proficua collaborazione. Quanto ad alcuni dei loro argomenti forti – dalla sobrietà alla lotta ai privilegi – la sinistra deve saperli recuperare perché è dimostrato che, quando succede, il M5S non tocca palla”.

Grillo attacca i radicali e corteggia l’elettorato cattolico. Corteggiamento reciproco, a giudicare dalle posizioni di parte della Chiesa. Crede che sia una manovra solo elettorale o in prospettiva può cambiare equilibri reali, vista la mole di leggi sui diritti civili ancora impantanate o mai discusse?
“Dice bene. Una parte, della Chiesa. Il primo risultato di quello che lei definisce un corteggiamento del mondo cattolico intanto ha prodotto una divisione nella Chiesa. Non esiste più un mondo cattolico monolitico. Se parliamo dell’offensiva sul lavoro domenicale, non possiamo dimenticare che il M5S si è detto favorevole a una battaglia dei sindacati e di una parte della sinistra. Sui migranti, invece, non ci può essere differenza più marcata. Mi chiedo cosa può pensare la Chiesa su quanto sostiene il M5S, peraltro diviso al suo interno, sull’assistenza ai disperati che fuggono da guerra e miseria”.

E Berlusconi? Una legge che incentivi le coalizioni non porta con sé il rischio che il centrodestra superi le sue profonde divisioni e torni maggioranza elettorale?
“È una possibilità, comunque meno grave di una sinistra che va divisa alla battaglia decisiva. E poi attenzione: se Fi, Lega e Fdi corrono da soli prendono nel complesso più voti. Il cartello elettorale può invece scoraggiare molti elettori dal sostenere una coalizione con Salvini e Meloni”.

Lei paventa un tracollo della sinistra. Ma, senza una vera riforma elettorale, quasi certamente saranno le alleanze in Parlamento a decidere il governo. L’abbraccio Pd-Berlusconi pare a molti inevitabile.
“Sarebbe innaturale. Mettere insieme qualcosa e il suo opposto non può funzionare. L’effetto delle larghe intese sarebbe l’equivalente di una sconfitta elettorale: ci vorrebbero anni per riconquistare la fiducia degli elettori”.

26 Apr, 2017

Pescatori di uomini senza frontiere

Erri De Luca, Il Fatto Quotidiano

Alle 6 di mattina a 18 miglia dalla costa libica Pietro Catania, capitano della nave salvataggio Prudence di Medici Senza Frontiere, mi fa vedere sulla carta nautica tre gommoni segnalati in partenza nella notte dalle spiagge di Sabrata. Alle 6 di mattina hanno raggiunto le 8 miglia di distanza. Inizio il turno di avvistamento al binocolo. Il radar di bordo non basta a segnalare un’imbarcazione bassa, fatta di gomma e di corpi umani. Sull’altro bordo di prua Matthias Kennes, responsabile di Msf, sorveglia il rimanente pezzo di orizzonte. Si vedono le luci della costa, l’alba è limpida. Passano le ore inutilmente.

Veniamo a sapere che i gommoni sono stati intercettati dalle motovedette libiche e costrette al rientro. Avevano raggiunto le 15 miglia, perciò fuori dal limite territoriale delle 12, che sono in terra 22 km. Potevano lasciarli stare. Sono già condannati a morte se fanno naufragio entro il limite, dove non possiamo intervenire. Li riportano a terra per chiuderli di nuovo in qualche gabbia: non tutti. Uno dei gommoni trainati si rovescia. Affogano in novantasette.

Quando si tratta di vite umane, le devo scrivere con le lettere e non con le cifre. Ventisette invece sono ammesse alla lotteria della salvezza. A bordo della Prudence era tutto pronto. Restiamo con i pugni chiusi, senza poterli aprire per raccogliere. Guardo il mare stasera: disteso, pareggiato a tappeto. Non si può affondare senza onde. Bestemmia al mare è affogare quando è calmo, quando non esiste alcuna forza di natura avversa, tranne la nostra. Siamo coi pugni chiusi.

Non soffro il maldimare, ho imparato da bambino a stare in equilibrio sulle onde. Non soffro il maldimare, ma stasera soffro il male, il dolore del mare, la sua pena d’inghiottire da fermo i naviganti. È creatura vivente il mare che i Latini chiamarono con affetto Nostrum, perché nessuno potesse dire: è mio. La nave in cui mi trovo vuole risparmiare al Mediterraneo altre fosse comuni. Rimaniamo al largo un giorno e un’altra notte di veglia.

Questo è oggi il trasporto delle vite sul Mediterraneo, da una parte crociere in girotondo, dall’altra parte zattere alla deriva, affidate all’arbitrio di chi intasca quattrini sia dai trafficanti che dall’Unione europea. Una pacchia per loro: perché dovrebbero rinunciare a uno dei contribuenti? Un naufragio qua e là, l’arresto di qualche gommone a casaccio, così per fingere di rispettare gli accordi. Gli accordi prevedono i naufragi? Non sia mai detto.

Gli accordi ammettono effetti collaterali, colpa degli irriducibili che vogliono viaggiare per forza. Proprio così, per forza: vengono prelevati di notte dai recinti, a scaglioni di centocinquanta è costretti a salire sul gommone. Costretti: parecchi vorrebbero ritirarsi di fronte al buio e al rischio assurdo. Non possono. Chi resiste, sale sotto spinta di armi. Uno di questi, recuperato in un salvataggio precedente, aveva un proiettile nella gamba. I trafficanti li incalzano, poi affidano bussola a timone a uno del carico. Gli scafisti non ci sono più.

Una delle unità veloci calate dalla Prudence per avvicinamento ai gommoni, chiede a quello che regge la barra del fuoribordo di spegnere il motore. Risponde che non lo sa fare. Gli scafisti hanno messo in moto e lui sa solo reggere la barra. L’unità veloce è costretta all’abbordaggio. Lionel, operativo di Msf, si fa tenere per i piedi e dalla prua si lancia sul motore fuoribordo del gommone per spegnerlo. Gli scafisti non esistono più.

Nel porto di Augusta in Sicilia, dove salgo a bordo della Prudence, c’è un campo di primo internamento per chi sbarca da navi soccorso. A fianco, grandi gru caricano rottami di ferro dentro stive dirette a fonderie in Asia. Viaggiano con documenti in regola pure i chiodi arrugginiti. Gli esseri umani del campo vicino sono invece carico fuorilegge in attesa di respingimento.

Le ultime procedure introdotte dal nuovo malgoverno cancellano il diritto di appello del richiedente asilo, in caso di primo rigetto della sua domanda. Tolgono il diritto di appello: a chi ha perso tutto quello che poteva già perdere. Si scrivono e si approvano da noi leggi d’ inciviltà feroce. Qualche svaporato nostrano dice che i gommoni partono perché ci sono le navi di soccorso al largo.

Sono venti anni che partono zattere a motore imbottite di umanità spaesata. La prima fu affondata nella Pasqua del ‘97 da una nave militare italiana che aveva l’ordine d’imporre un abusivo blocco navale in acque internazionali. Veniva dall’Albania, il suo nome era Kater i Rades. Lo Stato italiano se la cavò con dei risarcimenti alle famiglie dei circa novanta annegati.

Sono venti anni che viaggiano sul Mediterraneo zattere a motore senza alcun soccorso. Ora che finalmente esiste una comunità internazionale di pronto intervento in mare, sarebbe colpa sua se partono i gommoni. Come dire che esistono le malattie per colpa delle medicine. Se i delfini venissero in aiuto dei dispersi in mare, questi svaporati li accuserebbero di complicità coi trafficanti. In verità la loro fandonia intende accusare i soccorritori d’interrompere il regolare svolgimento del naufragio. Perché siamo e dobbiamo rimanere contemporanei incalliti del più lungo e massiccio affogamento in mare della storia umana.

Il giorno seguente all’alba torniamo a scrutare l’orizzonte dietro le lenti dei binocoli. Sappiamo che sono partiti di notte da Sabrata. Il mio compagno di cabina, Firas, di origini siriane, legge su FB messaggi in arabo dove si scambiano queste notizie. Localizziamo il primo gommone, stracarico, gli uomini stanno a cavallo dei tubolari, a prua è mezzo sgonfio. Si cala l’unità veloce che per prima cosa distribuisce giubbotti di salvataggio. Spesso la vista del soccorso produce una pericolosa agitazione a bordo del gommone. Il mare è quello piatto di ieri. Firas a prua col megafono mantiene la calma spiegando le manovre seguenti.

Quando tutti hanno indossato il giubbotto, la Prudence si accosta e aggancia il gommone alla sua fiancata. Da una scaletta di corda salgono a bordo uno per volta, aiutati da braccia robuste. Alcuni non si reggono in piedi per la posizione forzata tenuta sul gommone per molte ore. Salgono donne incinte e due bambini. A ognuno viene dato subito uno zainetto con una tuta, barrette caloriche, succhi di frutta, acqua, un asciugamano. La squadra medica fa a ognuno una prima visita. Tre container sul ponte sono attrezzati a unità ospedaliera, divisa in rianimazione, pronto soccorso, isolamento per casi infettivi e una piccola sala parto. Se ne occupa Stefano Geniere Nigra, giovane medico torinese.

A bordo della Prudence non si usa il termine di profughi, migranti e titoli affini. Sono chiamati ospiti. Ricevono la più urgente ospitalità, quella data a chi arriva dal deserto. Mi affaccio sul gommone svuotato, il fondo è tenuto insieme da un tavolato sconnesso. Ha portato centoventinove persone, con un motorino fuoribordo di 40 cavalli. Dalle sei di mattina fino a sera si raggiungono altri tre gommoni sparsi fuori delle 12 miglia, più un trasbordo da una nave soccorso più piccola che era a limite di carico. A sera si trovano sistemati seicentoquarantanove ospiti.

La Prudence può contenerne mille, è la più grande unità della zona. La sera si fa rotta su Reggio Calabria, destinazione assegnata dal comando di Roma. Gli ospiti finalmente al sicuro, nutriti, riscaldati, iniziano preghiere, canti e ballano insieme, popoli di terre diverse e lontane tra loro. Sono a bordo, diretti in Italia. È la sola parte del viaggio che non costa loro nulla. È il solo dono, l’unico passaggio gratis venuto loro incontro. È anche il migliore trasporto. Qui sul mare è successo il sottosopra dell’economia: il peggiore trasporto è costato loro carissimo, il migliore invece niente. Esultano per liberazione. Ho con me il passaporto.

Nessuno di loro ha un documento nè un bagaglio. Il loro esilio li ha privati del nome, l’ identità è che sono vivi e basta. I loro figli, i loro nipoti vorranno sapere, ritrovare le impossibili piste attraversate, l’epica leggendaria che oggi è un trafiletto in cronaca, in caso di strage. “Ennesimo” è l’aggettivo osceno che accompagna il titolo, accanto al neutrale sostantivo di naufragio.

Ennesimo: il cronista è stanco di dover tenere il conto, alzare il sopracciglio per l’ennesima volta. Sulle rive del lago Kinneret, chiamato Tiberiade dai conquistatori venuti da Roma, il giovane fondatore del cristianesimo cercò i primi compagni. Erano di mestiere pescatori. Al giovane piacevano le metafore. Secondo Matteo (4,19) disse : “Venite con me, vi farò pescatori di uomini”. Eccomi in un tempo e su una nave che applica alla lettera l’impulsiva metafora. Sto con persone che si sono messe a pescare uomini, donne, bambini. Il Mediterraneo è un lago Kinneret salato e più grande.

Chi sono questi pescatori? Per coincidenza con la vicenda precedente, a bordo sono tredici, ma senza un Iscariota in squadra. Quattro di personale medico, tre organizzatori tecnici, tre interpreti e mediatori culturali, una psicologa, una responsabile delle comunicazioni e in più il coordinatore. Ognuno ha esperienza di interventi con Msf in varie aree del mondo. Hanno scelto la professione del soccorso, ma per farla non è sufficiente la competenza. Serve una catapulta interiore pronta al lancio dove si grida aiuto.

Hanno passaporti di molte nazioni, ma il loro titolo è: senza frontiere. Qui nelle acque internazionali sono nel loro ambiente. Quando la loro presenza è indispensabile, non valgono i confini. Perciò disturbano spesso la condotta dei governi coinvolti. Hanno scelto di non prendere fondi dall’ Unione Europea. Perciò non piacciono alla sua agenzia Frontex, che si occupa di frontiere nel Mediterraneo e non sopporta l’impegno di organismi indipendenti, anche se salvano vite che senza di loro andrebbero perdute.

Domenica mattina di Pasqua la Prudence è in vista del porto di Reggio Calabria. Troveremo sul molo in un giorno di festa solenne il dispositivo necessario alla sbarco? Il dubbio si dilegua all’imbocco del porto: primi si vedono per numero e colore di magliette azzurre i giovani volontari cattolici che cantano cori di benvenuti. Poi il personale medico al completo, i funzionari di polizia del servizio immigrazione, i molti autobus per il trasporto degli sbarcati nelle varie destinazioni.

A ognuno che scende lungo la passerella, i volontari danno un opuscolo in varie lingue che informa su diritti e procedure, a conferma di quanto già spiegato a bordo. Scendo e ricevo addirittura il saluto del sindaco venuto al molo con alcuni assessori. Non riesco a credere: è domenica di Pasqua, ma sono tutti pronti a funzionare con efficienza, cordialità, rispetto. A Reggio Calabria, mi dicono, è prassi da due anni. Matthias Kennes mi conferma che anche nel porto di Palermo hanno un simile spirito di servizio negli sbarchi. Gli uomini e le donne scendono separatamente. Una di loro si volta intorno smarrita. Una funzionaria di polizia fa chiedere a un’interprete cosa stia cercando. Si tratta del marito. La funzionaria lo va a cercare, lo trova e si assicura che la coppia viaggi insieme. Si può fare: tenere insieme procedure e senso di umanità solidale. Grazie Reggio.

Il mattino dopo si è di nuovo in mare dopo un rifornimento accelerato. Si va a velocità sostenuta, c’è urgenza in zona. Sono partiti molti gommoni e sul posto la nave Phoenix del Moas è già carica, con intorno nove gommoni, cioè mille persone senza acqua nè giubbotti salvataggio. Sono tenuti insieme con qualche corda. Abbiamo davanti almeno trenta ore di navigazione e mare grosso che ci rallenta. Non potremo arrivare in tempo. Uno dei gommoni cede e nessuno può farci niente. Questo può spiegare che i trafficanti lanciano gommoni al largo senza nessun calcolo circa la presenza di soccorsi.

La loro unica condizione è che il mare sia calmo, non per motivi umanitari, ma perché centocinquanta persone spinte da un motore di 40 cavalli non riescono a prendere il largo se il mare appena increspa. A bordo della Prudence queste partenze vengono chiamate lanci, perché scagliati da un lanciatore che rimane a riva. L’intensità dei lanci di aprile è dovuta alla nostra fornitura di motovedette nuove alla Guardia Costiera libica, che entreranno in servizio a maggio. I trafficanti nell’incertezza affrettano tutti i lanci consentiti dalle condizioni meteo.

Il capitano Pietro Catania e il suo equipaggio sono coinvolti anima e corpo in queste operazioni, perché sono gente di mare. Non badano a turni né a orari, fanno tutt’uno con la gioventù di Msf. In rotta da Reggio Calabria la nave incontra maltempo. Veniamo a sapere che è rimasto un gommone, in attesa fuori delle 12 miglia. Siamo i meno lontani ma comunque arriveremo troppo tardi. Allora da Lampedusa, che sta parecchio più a sud di noi, la Guardia Costiera manda due motovedette veloci, che arrivano molto prima e salvano centoquarantatre persone caricandole a bordo. Ci corrono incontro e le trasferiscono da noi. I due equipaggi sono partiti così in fretta da Lampedusa, da non avere caricato neanche il cibo per loro. Sono digiuni, i marinai della Prudence li riforniscono per il loro viaggio di ritorno.

Salgono centoquarantatre persone intirizzite, una donna all’ottavo mese di gravidanza. I loro occhi hanno perduto espressione di domanda, di preghiera, di messa a fuoco. Stanno ancora fissando l’orizzonte vuoto. “Lo senti dall’odore, da quanto tempo stanno in acqua” mi dice Cristian Paluccio, comandante in seconda. Lo sento forte anch’io, è tannino, materia da conciatore di pelle, un sudore di cuoio. Ricevuto lo zainetto di primo ristoro si mettono in fila per la doccia. Si tolgono di dosso il fradicio di naufraghi. Dopo il getto di acqua dolce, per loro anche più dolce, riprendono espressione i loro occhi. Cercano i volti, cominciano a chiedere notizie, a capire chi li accoglie al sicuro. Affiorano i canti, i ritmi e il contagioso ballo.

Non ho uso di tatuaggi, la mia superficie riporta solo i segni degli anni. Ma gli avvenimenti del mondo che mi hanno coinvolto fisicamente, mi hanno inciso tatuaggi dalla parte interna della pelle. Abito dentro la mia, posso percepirli e li distinguo. Ho disegni scritti sul lato che non scolorisce. Le due settimane a bordo mi hanno impresso un tatuaggio nuovo: una scala di corda che pesca nel vuoto. Dal suo ultimo gradino ho visto spuntare una per una le facce di chi risaliva dal bordo di un abisso. Stipati in una zattera, scalavano i gradini della loro salvezza. Quelle centinaia di facce: non ho la virtù di poterle trattenere.

Ho avuto l’assurdo privilegio di averle viste. Di loro mi resta la scala di corda che hanno scalato seminudi e scalzi su pioli di legno. Pratico alpinismo e credo di sapere di preciso cosa sia il verbo scalare. Invece non lo sapevo. Ho imparato in mare a bordo di una nave quello che nessuna cima raggiunta mi ha insegnato prima. Perciò sotto pelle si è impresso il tatuaggio di una scala di corda coi pioli di legno.

24 Apr, 2017

Chi è ipocrita sui migranti

Chiara Saraceno, La Repubblica

Chi è ipocrita sulla questione dei salvataggi in mare dei migranti? Le Ong e chi le sostiene finanziariamente (ma anche la marina italiana e Frontex) perché effettuano i salvataggi pur sapendo che c’è chi lucra sui migranti sia nei luoghi di arrivo, o chi fa finta di non vedere e non sapere che premono alle porte dell’Europa persone così disperate da correre rischi inenarrabili, compresa la morte, pur di sfuggire alle condizioni di vita che sono loro toccate in sorte?

21 Apr, 2017

Biotestamento, si può ma con riserva: il medico decide

Eleonora Martini, Il Manifesto

Molte critiche ma anche un ampio consenso. Il testo di legge che introduce le Dichiarazioni anticipate di trattamento è stato licenziato ieri dalla Camera con 326 voti favorevoli e solo 37 contrari. Malgrado i tanti mugugni delle destre e degli oltranzisti pro-life, presenti anche nel centrosinistra ma questa volta messi in sordina. E malgrado gli ultimi “ritocchi” apportati al testo con gli emendamenti presentati dalla maggioranza in Aula nelle ultime ore, dopo 14 mesi di discussione in Commissione Affari sociali, che hanno mandato in aria l’asse Pd-M5S e trovato anche l’opposizione di SI e Mdp.

IERI L’ULTIMO STRAPPO, quando un altro emendamento presentato dal deputato Mario Marazziti (Ds-Cd) passa con la riformulazione suggerita dal relatore di maggioranza Donata Lenzi e depotenzia le Dat che possono essere disattese dal medico che le ritenesse «manifestatamente inappropriate o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente», oppure qualora si fossero rese nel frattempo disponibili nuove terapie.

I deputati a 5 Stelle protestano, per «la forma» e per «la sostanza»: «Sul biotestamento ci siamo confrontati per un anno e mezzo in commissione – scrivono in una nota i membri della Affari sociali – e quindi l’emendamento Marazziti avrebbe dovuto essere oggetto di discussione in quella sede. Invece, è arrivato ieri sera in Comitato dei nove e lì è sostanzialmente passato. Un blitz che appare legato a equilibri politici e non alla qualità del testo. Sottolineiamo come a fronte dell’approvazione di questo emendamento sia stata bocciata la nostra richiesta di dare maggior peso al ruolo del fiduciario del paziente. Purtroppo quanto avvenuto è un compromesso al ribasso che rende le Dat suscettibili di interpretazioni». Un emendamento, questo, che è stato bocciato anche da Sinistra italiana: «Questa norma insieme a quella approvata mercoledì, che scarica i medici dall’obbligo professionale di soddisfare le richieste del malato, sono due paletti importanti alla volontà del paziente – afferma la deputata Beatrice Brignone -. E la cosa grave è che questi puntelli sono arrivati all’improvviso in Aula, pur avendo avuto molti mesi a disposizione».

Il M5S, che aveva presentato un emendamento per legalizzare l’eutanasia approvato anche da SI, ha comunque votato a favore del testo finale, considerando la legge, alla fin dei conti, un «atto di civiltà». Si sono schierati contro invece Lega Nord, Ap, Fdi e Forza Italia che però ha lasciato ai suoi deputati libertà di coscienza. Ora il testo passerà all’esame del Senato, dove in molti sperano (con poco realismo, per via di una maggioranza ben più risicata) che possa essere migliorato.

NEI SEI ARTICOLI della legge sul fine vita viene normato il consenso informato, stabilito il diritto del paziente a rifiutare e revocare ogni trattamento sanitario, compresi nutrizione e idratazione artificiale, vietato l’accanimento terapeutico, concessa la possibilità ai medici di somministrare la sedazione continua profonda, se richiesta. Le Dat possono essere redatte anche con scrittura privata, ma dovranno essere autenticate davanti a un notaio o a un pubblico ufficiale. Non è stato istituito un Registro nazionale delle Dat per mancanza di copertura rilevata dalla Commissione Bilancio.

E fin qui, diciamo tutto bene. Il problema dei problemi sta però nel rischio che le Disposizioni anticipate diventino carta straccia nel momento in cui chi le ha redatte non sia più in grado di intendere e volere. Innanzitutto perché si istituzionalizza l’obiezione di coscienza che, seppur controbilanciata dall’obbligo per la struttura sanitaria di rispettare le volontà del paziente, rischia inevitabilmente di rendere inapplicabile il «testamento biologico». Si potrà indicare un fiduciario, una persona che si relazionerà con il medico e con le strutture sanitarie al posto del malato, ma l’ultima parola, in ogni caso, l’avrà sempre il medico, che applicherà le Dat solo se le riterrà «appropriate».

LUCI E OMBRE, DUNQUE. Gioisce invece il Pd al completo. E la Cgil saluta la nuova legge come «un passo in avanti sostanziale verso il rispetto della volontà dei pazienti e la dignità del fine vita. La risposta del Parlamento ad un obbligo costituzionale che diventa obbligo anche per il Sistema sanitario nazionale». Tutti chiedono che il testo passi ora, senza indugi, «subito al Senato».