Top

18 Ott, 2013

Una storia di non ordinaria onestà

Ci sono anche storie buone, storie di persone perbene, storie dove non si viene sfruttati o licenziati o sottoposti a mobbing. Storie di editoria.  Storie come quelle di A, che sta per amica (cara). Lei me l’ha raccontata, io le ho chiesto di scriverla per condividerla. Tutta vostra.

Ero al sesto mese di gravidanza quando fui chiamata per un colloquio dal mio attuale datore di lavoro, un piccolo editore di cui non farò il nome. Le mie amiche mi avevano consigliato di camuffare la pancia (“potresti semplicemente essere una ragazza in sovrappeso”, mi avevano detto), perché altrimenti mi avrebbero chiuso la porta in faccia prima ancora di farmi accomodare.

Mi presentai a quel colloquio con una maglia fucsia, stile Barbapapà. Il colloquio durò il giusto necessario, e si concluse con un “Siamo interessati. Le faremo sapere”.

Passavano le settimane, continuavano i colloqui da altre parti, ma quel “Le faremo sapere” sembrava non avere un seguito. Alla fine, una email: “Sto cercando di organizzare un incontro con il mio socio e con l’editor, così da vederci tutti insieme”.
Passarono altre settimane, e alla fine l’incontro fu fissato. Ricordo ancora quel pomeriggio. Mi ero ritrovata davanti a due giovani editori e a una navigata editor. Mi avevano riempita di domande, com’era giusto che fosse. Avevano già un ufficio stampa, ma volevano investire sulla promozione aggiungendone un altro. Dopo un’oretta circa, ci eravamo salutati. Uno dei due mi aveva dato appuntamento la settimana successiva per “definire il tutto”.

Era stato allora che, spaesata, gli avevo indicato il mio pancione. Lui aveva sorriso e mi aveva chiesto quando andassi in maternità. Gli avevo detto che da fine maggio a fine ottobre mi sarei dedicata al bambino che stava per nascere ma che comunque avrei potuto iniziare a prendere confidenza con le nuove pubblicazioni. “Perfetto – mi aveva detto – facciamo partire il contratto da novembre”. Io, ai tempi, lavoravo per un editore da cui stavo scappando a gambe levate, per cui avrei potuto fare le cose con comodo. E così fu.

La settimana successiva, come da accordi, uno dei due editori prese un foglio di carta intestata della casa editrice – che ancora conservo – su cui scrisse che mi incaricava di seguire il loro ufficio stampa a partire dal mese di novembre di quell’anno, per un minimo di due anni.

Il 4 novembre di due anni fa, i suddetti giovani editori stipularono con me un contratto a tempo determinato come ufficio stampa part time. Il livello e la retribuzione che mi venivano riconosciuti mi stupirono: non mi stavano sottopagando e non mi stavano sfruttando. Mi riconoscevano esattamente quanto un ufficio stampa con esperienza dovrebbe – in teoria – vedersi riconosciuto in busta paga. Pensai che era troppo bello per essere vero. Mi sbagliavo: era tutto verissimo.

Oggi, due anni dopo l’inizio della mia collaborazione con quella piccola casa editrice, mi ritrovo incinta di una gravidanza a rischio. Sono stata costretta a un mese di riposo forzato a letto e a un ricovero ospedaliero. Ah, dimenticavo: il tutto quando sono in scadenza del secondo contratto a tempo determinato. Sono sincera: non ho dubitato nemmeno un attimo che non mi avrebbero rinnovata, ma ho pensato che magari, viste le mie condizioni, avrebbero preso tempo facendo slittare il rinnovo, così da poter stipulare un nuovo determinato. Siamo così abituati a questi trucchetti, che sembra anormale il contrario.

Invece, qualche giorno fa, gli editori dissero che “la mozzarellina era in scadenza e che non avrebbero più apposto alcuna data sopra la confezione” (indossavo una maglia bianca e in casa editrice dissero che sembravo un’ovolina di bufala). “Certo – disse uno di loro – che pizza, ci tocca sopportarti a vita così!”. Tradotto, contratto a tempo indeterminato. Il mio primo contratto a tempo indeterminato dopo anni di contratti a progetto, collaborazioni occasionali e accordi alla volemose bene.
E no, non stiamo parlando di un medio editore. Stiamo parlando di una piccola casa editrice indipendente con una ventina di titoli l’anno. Lì dentro sono tutti assunti, tutte donne, eccezion fatta per i due editori e un collega.

Quando mi capita di chiacchierare con altre colleghe uffici stampa mi dicono che è impossibile che non ci sia la fregatura sotto. No, la fregatura non c’è. È soltanto una storia di non ordinaria onestà.

Loredana Lipperini

16 Ott, 2013

Léonarda, espulsa durante la gita scolastica

La polizia frontaliera ha fatto fermare il bus della scolaresca, prelevato la ragazzina, che è stata portata in aeroporto e imbarcata sul volo per Pristina. La professoressa e gli studenti: «Trattamento inumano»

Léonarda, 15 anni, è stata arrestata mentre era in gita scolastica con i compagni. Come rom illegalmente residente in Francia, doveva essere espulsa verso il Kosovo insieme al resto della famiglia Dibrani, madre e sei figli. Il padre era già partito. Gli agenti della Paf (Police aux frontières, le guardie di confine) hanno fatto fermare il bus della scolaresca, prelevato la ragazzina, l’hanno portata in aeroporto e imbarcata sul volo per Pristina.

Tutto è successo ieri mattina. La famiglia kosovara era immigrata in Francia nel 2009 e non aveva i requisiti per la regolarizzazione, anche se li avrebbe maturati fra due mesi. Viveva a Levier, nel sud-est, vicino al confine svizzero. I figli parlano perfettamente il francese e, secondo il blog che ha denunciato l’episodio, frequentano da tre anni le scuole. In effetti, Léonarda frequentava il collège e ieri partecipava a una gita scolastica a Sochaux organizzata dalla scuola media André-Malraux e dal liceo Touissant-Louverture di Pontarlier. Per questo, quando la polizia è arrivata al domicilio della famiglia, non l’ha trovata. Gli agenti si sono informati e hanno telefonato alla professoressa di Storia e geografia che accompagnava i ragazzi. Questo il racconto dell’insegnante, madame Giacoma: «Il linguaggio dell’agente era dei più fermi e dei più diretti. Mi ha detto che non avevamo scelta e che dovevamo imperativamente far fermare l’autobus dove eravamo perché voleva recuperare una delle nostre alunne in situazione irregolare: Léonarda Dibrani. Gli ho detto che non poteva domandarmi una cosa del genere perché la trovavo totalmente inumana».

Ma la professoressa ha dovuto ottemperare. Ha cercato di spiegare a Léonarda la situazione: «Dopo i miei colleghi hanno spiegato la situazione a certi studenti che credevano che Léonarda avesse rubato o commesso un reato. Ragazzi e professori sono stati estremamente scioccati». La prefettura si difende dando un’altra versione: secondo le autorità, la madre voleva raggiungere il padre in Kosovo. I posti in aereo si erano resi disponibili ieri e gli agenti sono intervenuti su richiesta della famiglia per recuperare la ragazzina.

Fin qui la cronaca. Il problema è però subito diventato politico. Per molti esponenti del volontariato, dei partiti della gauche e dello stesso Partito socialista, si tratta della classica goccia che fa traboccare un vaso già colmo, dove il vaso è la linea dura sui rom del ministro socialista degli Interni, Manuel Valls, in perfetta continuità con quella dei suoi predecessori di destra. Lo scandalo è enorme, le polemiche violentissime. E pochi minuti fa, dopo un’intervento del premier Jean-Marc Ayrault, Valls è stato costretto ad annunciare l’apertura di un’inchiesta amministrativa. Qualche testa sicuramente cadrà. Resta l’ambiguità di un ministro di sinistra che fa una politica di destra e con metodi muscolari. E che proprio per questo è l’unico membro veramente popolare del governo più impopolare degli ultimi anni.

11 Ott, 2013

La nuova destra

Quando calcava le piazze elettorali del Lombardo-Veneto rilanciando gli slogan leghisti contro l’invasione degli immigrati Beppe Grillo non scherzava. Le dure parole nei confronti dei disperati del mondo, ripetute ieri contro l’emendamento dei parlamentari a 5stelle per l’abolizione del reato di clandestinità, sono le stesse urlate negli ultimi venti annidai microfoni leghisti.
Leggi l’articolo

10 Ott, 2013

Obiezione di coscienza, pagano le donne

In Italia la possibilità di abortire è sancita dalla legge 194, voluta dai cittadini col referendum. Ma 7 ginecologi su 10 sono obiettori di coscienza, e quindi farlo in ospedale è sempre più difficile. Così molte italiane vanno all’estero, fanno su e giù per la Penisola o ricorrono all’aborto clandestino.

Da 540 a 1.330 sterline per l’aborto farmacologico, da 670 a 1.770, a seconda delle settimane, per quello chirurgico. Prenotazioni 24 ore su 24, sette giorni su sette, online. Le italiane che si rivolgono al British Pregnancy Advisory Service sono migliaia, tanto che in Inghilterra le richieste seguono solo quelle delle irlandesi. E poi la Svizzera, la Francia, con gli ospedali di Nizza che non accettano più nostre connazionali, perché ormai sono la metà di quelle che richiedono un intervento. E chi non può permettersi di pagare, fa il suo pellegrinaggio su e giù per la Penisola tentando di mendicare un diritto, fino ad arrivare alla clandestinità. Fino a morire.

«Ero alla decima settimana, ma all’ospedale di Palermo mi hanno detto che non ero più in tempo. A causa della lista d’attesa avrei di certo superato le 12 settimane e cinque giorni previsti come limite. E così solo partita da sola, con un treno, verso nord», la voce di Maria si incrina «fa male, ti fanno sentire in colpa. Abortire è doloroso, farlo in Italia ancora di più». Perché nel nostro Paese la possibilità di abortire è sancita da una legge, la 194, voluta dai cittadini che si sono espressi con un referendum, ma farlo è sempre più difficile.

Sette ginecologi su dieci sono obiettori di coscienza, in continuo aumento e con percentuali che superano l’80 per cento nel Sud. A Napoli quanto è morto il ginecologo del Policlinico Federico II hanno dovuto interrompere il servizio, a Roma solo un medico su dieci non è obiettore, e in molti presidi, come quelli di Treviglio o Montichiari, il tasso di obiezione arriva al cento per cento.

«La legge diventa inapplicabile e il problema non riguarda solo le interruzioni volontarie di gravidanza, ma soprattutto gli aborti terapeutici» spiega Lisa Canitano, ginecologa dell’associazione Vita di donna, no profit che fornisce assistenza e consulenza per la salute delle donne. «Sono madri che desiderano la gravidanza, ma davanti a gravi malformazioni vogliono interromperla e lo fanno con molta sofferenza». La legge prevede che si possa effettuare dopo i 90 giorni, causa ‘rischio psicofisico materno’, ma «servono medici ospedalieri, non si possono chiamare da fuori, e accade che molti obiettori proibiscano l’intervento anche solo se loro sono di turno e fanno altro».

Una follia considerando che l’amniocentesi, un esame che serve proprio per diagnosticare eventuali anomalie, è effettuato anche in strutture cattoliche come il Policlinico Gemelli di Roma. E a farlo sono medici obiettori, che trovano molto nobile praticare una ricerca così sofisticata. Peccato sia un esame che presenta complicanze, compresa la morte del feto. Eppure se una donna assume questo rischio e sfortunatamente si riscontra una malformazione, lo stesso medico obiettore si rifiuta di praticare l’aborto. Contraddizioni del Belpaese in cui l’esercizio di convinzioni etico-religiose compromette l’erogazione di una prestazione medica sulla carta garantita.

La scelta di abortire un figlio che si voleva è orribile, ma girando per le corsie e le associazioni la realtà da affrontare lo è ancora di più. «Devi sperare in un parto prematuro e sperare che muoia. Ti costringono a passare dal parto oppure devi fare la pazza. Un dottore mi ha detto: ‘si butti in un pronto soccorro, faccia la pazza e vedrà che dopo la perizia psichiatrica la fanno abortire’, si rende conto? E io Luca lo desideravo, lo volevo, avevo già preso le tutine azzurre». La storia di Linda è la storia di tante future mamme costrette a vivere un dramma o a emigrare all’estero in cerca di cure.

Sottovoce una ginecologa racconta che un po’ di tempo fa una paziente è dovuta andare in Grecia e pagare 4 mila euro per abortire. «Le si era rotto il sacco a quattro mesi. Quando accade ci dovrebbe essere l’aborto terapeutico perché il bambino non sopravvivrà e la madre rischia di morire, ma in un noto ospedale cattolico della Capitale, in cui tutti erano obiettori, si sono rifiutati di intervenire. E hanno detto no anche i medici di altri ospedali laici. Meglio non mettersi nei guai con una paziente a rischio. Alla fine è arrivata una dottoressa greca, si sono accordate per il pagamento. Per abortire se ne è andata ad Atene».

E dire che stando ai dati della relazione ministeriale 2012 sullo stato d’attuazione della legge 194, gli aborti sono in calo: meno quattro per cento solo nell’ultimo anno e le minori italiane si classificano al primo posto come le più accorte tra le ragazzine europee. Sembrerebbe una buona notizia, quasi miracolosa considerando le poche campagne informative sulla contraccezione, se non fosse che gli aborti spontanei sono in aumento, 75 mila nel 2011 quelli dichiarati all’Istat, uno su tre pare frutto di interventi casalinghi finiti male. E nell’Italia dell’interruzione volontaria di gravidanza legale si ritorna alla clandestinità. Le ultime stime, mai aggiornate dal 2008, parlano di ventimila aborti illegali. Quelli reali forse sono il doppio o anche di più. Perché chi non ha i soldi per spostarsi alla ricerca di un diritto negato, non ha scelta.

Lo sanno bene negli ospedali delle periferie dove le più giovani, le migranti, le prostitute arrivano in fin di vita, con emorragie e infezioni. Farmaci abortivi di contrabbando, ambulatori clandestini gestiti dalla mafia cinese, istruzioni su internet su come poter trovare medicinali a base di misoprostolo lamentando dolori all’ulcera o reumatismi, spiegazioni su quante pillole prendere e su come espellere il feto nel bagno di casa. Molte ragazzine italiane fanno così, che i consultori sono sempre meno e se entrano in un pronto soccorso per essere dimesse i sanitari devono avvertire i genitori. Del resto se la pillola del giorno dopo, che non è un farmaco abortivo, ma contraccettivo, non viene prescritta ad una deputata dal medico di Montecitorio, figurasi ad una donna fragile e in difficoltà. E non va meglio con l’Ru486, la pillola abortiva. «Ero alla quinta settimana e avevo deciso che la pillola sarebbe stato il modo più veloce e meno invasivo per terminare questa gravidanza indesiderata.

Impossibile trovare informazioni chiare su cosa fare per reperirla. Finalmente tramite un’ostetrica e Vita di donna riesco a capire che devo recarmi al San Camillo, unico ospedale a Roma, ma molto presto e con delle analisi delle urine che attestino la gravidanza. Quanto presto non si sa, suggeriscono le sette. Arrivo presto, ma c’era gente dalle cinque del mattino e le persone che visitano per prendere la pillola sono solo dieci, ma la danno solo a cinque. Dopo quattro ore, mi fissano un appuntamento due settimane dopo, cioè quando avrei rischiato di andare oltre il tempo massimo», racconta Anna, giovane madre di due bimbi. «L’Italia scandalosamente è all’ultimo posto nel ricorso alla metodica farmacologica tra i Paesi dove si pratica l’aborto legalmente. In barba alle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità» tuona Mirella Parachini dell’associazione Luca Coscioni.

Per il Movimento per la Vita meglio così perché «lascia sole le donne, inducendole a sofferenze molto simili all’aborto clandestino». Di certo è inaccessibile a gran parte delle donne e le poche che riescono ad assumerla devono rimanere in ospedale tre giorni. Tre giorni di ricovero che pesano sulle casse di un Sistema Sanitario Nazionale già in crisi. Eppure in Svizzera la stessa pillola, al costo di 600 euro, viene data in uno studio privato. «Prendi la prima pasticca davanti al dottore, firmi un foglio e la seconda la assumi dopo tre giorni a casa tua in Italia» spiega Anna.

Oltre a non garantire a ogni donna le stesse possibilità di accedere alla legge, l’alta percentuale di obiettori comporta poi costi aggiuntivi per le strutture: perché se i medici regolarmente assunti rifiutano di praticare l’aborto, allora l’ospedale deve ricorrere agli esterni con la chiamata ‘a gettone’.Una spesa che solo in Lombardia ammonta ogni anno ad oltre 300 mila euro.

Ad ammettere che ci sia «qualche criticità», è lo stesso ministro della Sanità Beatrice Lorenzin che ha parlato di una «distribuzione inadeguata del personale» fra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione. Avvierà un monitoraggio e cercherà una via per la ridistribuzione del personale, ma la situazione pare più complicata. Il Movimento 5 Stelle è arrivato a chiedere di modificare la legge e prevedere che ogni struttura ginecologica pubblica assuma la maggioranza del personale tra i non obiettori, ma bisognerebbe capire che fare con il personale già assunto e soprattutto ci sarebbe il rischio di una modifica restrittiva della legge.

Che fare poi se un medico nel tempo cambia idea e diventa obiettore? Fino ad oggi oltre alle convinzioni personali, sembra che molti lo facciano per ragioni di carriera, una scelta per non essere discriminati. «Se si assumono medici con la condizione di fare interruzioni di gravidanza poi non li si può licenziare perché fanno obiezione, ma se fossero militari e diventassero testimoni di Geova il problema non si porrebbe. Evidentemente l’esercito è molto più “Stato” rispetto alla sanità, che troppo spesso è terra di nessuno» nota una ginecologa esasperata dalla situazione. Una terra di nessuno in cui si lascia al caso l’applicazione di una legge.

Silvia Cerami, L’Espresso

10 Ott, 2013

Sì della camera al decreto. Tempi stretti per il senato

Alla fine ci sono riusciti e il decreto femminicidio è passato alla camera ieri con 343 voti favorevoli per approdare adesso al senato con tempi strettissimi per l’approvazione entro il 14 ottobre. Un testo arrivato alla camera già modificato, grazie all’apertura della viceministra del lavoro e con delega alle pari opportunità, Cecilia Guerra, e grazie al lavoro che le parlamentari hanno svolto direttamente in commissione giustizia, modifiche però che ancora non convincono del tutto.
Leggi l’articolo

09 Ott, 2013

Vandana Shiva, una lezione sull’agricoltura biologica

Un incontro su agricoltura biologica nell’agro urbano, produzione di cibo genuino e recupero delle terre pubbliche in vista della Giornata Mondiale dell’Alimentazione. Mercoledì 9 ottobre, alle ore 17 presso la sala della Protomoteca del Campidoglio, si svolgerà il dibattito “Sovranità alimentare, libertà dei semi e recupero delle terre pubbliche”, il sindaco Ignazio Marino e che sarà introdotto da una lectio magistralis della scienziata e attivista indiana Vandana Shiva.

L’incontro, che vedrà la presenza del vicesindaco Luigi Nieri, dell’assessore all’Ambiente Estella Marino, del consigliere comunale Gianluca Peciola e di quelli regionali Marta Bonafoni e Riccardo Valentini, è organizzato da Comune e Regione in collaborazione con l’onlus Navdanya International per approfondire temi come il recupero degli spazi nell’agro romano ma anche del boom di orti urbani e per lanciare l’ultima campagna di Shiva su “Sovranità alimentare e libertà dei semi”.

“L’appuntamento con Vandana Shiva sarà l’occasione per fare il punto sulle iniziative che sta mettendo a punto la Regione Lazio, come la mappatura delle terre di proprietà lasciate incolte, ma anche fare un passo ulteriore per ispirarci alle buone pratiche e mettere in piedi un percorso virtuoso – spiega Marta Bonafoni – Roma è il più grande comune agricolo d’Europa e oltre a difenderlo dal cemento bisogna valorizzarlo, rilanciando un nuovo sviluppo di tutta l’area ” conclude Bonafoni.

“Il patrimonio agricolo della capitale potrebbe garantire posti di lavoro per i nuovi agricoltori e servizi per tutti i cittadini – dichiara Gianluca Peciola – Negli ultimi anni anche a Roma è cresciuto
fortemente il fenomeno degli orti urbani e dei giardini condivisi, che rappresentano sia un’esperienza di recupero di un bene comune sia un’opportunità di lavoro. Lo dimostrano le esperienze di EutOrto, il progetto gestito dai lavorati cassintegrati ex-Eutelia e della Cooperativa agricola Co. R. Ag. Gio. – continua Peciola – Per fare questo  bisogna che anche Roma Capitale si doti di strumenti amministrativi per  favorire queste iniziative”.