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11 Feb, 2014

Donne in carcere. Intervista a Ida Del Grosso, direttrice a Rebibbia

Abbiamo incontrato la direttrice dell’istituto femminile di Rebibbia il più grande dei sei esistenti in Italia con 400 donne detenute.
Intervista di Maria Fabbricatore

Abbiamo incontrato la direttrice dell’istituto di Rebibbia il più grande in Italia dei sei esistenti con questo tipo di struttura autonomo, con poco più di 400 detenute. È un carcere che comprende anche la sezione con detenute ad alta sicurezza. L’istituto è indipendente e gestisce in modo autonomo progetti e risorse. Ha dei servizi di eccellenza, come il nido per i bambini, che abbiamo visitato, che prevede per legge da zero a tre di stare dentro con le madri. E il servizio gestito dai volontari di “A Roma, insieme Leda Colombini”, che porta i bambini dal carcere ai nidi esterni comunali. Unico esempio italiano. Sono previsti per legge anche gli Icam, strutture esterne al carcere, le case famiglia, di gestione comunale o pubblica, funziona bene ad esempio quello milanese, su quelli previsti a Roma si discute, in modo costruttivo, ma non si sa quali strutture verranno adibite a casa famiglia e quando.

Venendo qui, direttrice, ho trovato i parenti in fila ordinata che venivano a fare visita alle detenute.
Si teniamo molto alle famiglie, stiamo facendo delle ristrutturazioni da quel lato dell’istituto. La nostra è una struttura aperta per le detenute da sempre, da vent’anni. Dalle otto di mattina alle venti di sera, possono girare liberamente all’interno dell’istituto, ovviamente se ci sono dei motivi. Facciamo tantissimi trattamenti.

È così posso confermarlo, mi è capitato di vedere, visitando il carcere passando dalla biblioteca al teatro donne che camminavano tranquillamente da un corridoio all’altro e salutavano la vice direttrice Gabriella Pedote, che mi accompagnava “Come va?” lei alla detenuta, e l’altra: “tutto bene, dottoressa, ho la visita, grazie”. Per chi come me non conosceva, faceva fatica a volte a distinguere il personale dalle detenute. E così loro a me.

Riprendo l’intervista, guardando di tanto in tanto fuori dalla finestra il giardino, dove, come mi dirà la direttrice, le detenute, d’estate, trascorrono il tempo con i figli che vengono dall’esterno. Ci sono i gazebo dell’Ikea, sedie e tavolini. Le esperienze delle donne nel carcere sono tante qualcuna eclatante è rimasta nella memoria. Molte si sono salvate da un destino segnato, qui in carcere la vita non è facile, mai. Ci sono i figli fuori che aspettano che le madri tornino, qualcuna ritorna per sempre, ma la lontananza dai figli è il dolore più grande, quelle che le tiene in vita o le condanna per sempre. Dentro c’è la biblioteca con 10.000 volumi. Il teatro. L’azienda agricola con allevamento di conigli e pecore, ma produce, per ora solo per l’istituto. Corsi di yoga e palestre in cui c’è il personale del Coni, perché con lo sport si fa squadra e si scopre cos’è lo spirito di gruppo.

Cosa sono i trattamenti intende quelli di tipo psicologico?
(Sorride) I trattamenti sono l’offerta dei progetti. Uno su tutti la scuola. Ci sono le scuole elementari con personale e docenti che fanno normale richiesta al provveditorato per insegnare in carcere. Le detenute straniere fanno richiesta delle scuole alimentari per poter imparare bene l’italiano. La funzione della pena è una funzione rieducativa e deve tendere alla rieducazione del condannato, sennò non ha senso. Gli strumenti servono perché le detenute possano capire lo sbaglio, per questo puntiamo molto sui progetti dalla scuola, al lavoro, la religione, biblioteca, teatro. E poi abbiamo tantissimi volontari.

Ci sono tantissimi volontari e tante associazioni, questo succede perché la vostra “burocrazia” permette un supporto dall’esterno?
Noi siamo una struttura aperta, più persone entrano da fuori, più possono verificare come noi lavoriamo e che si può fare qualcosa di positivo.

Poi contano i fatti
Sì, contano i fatti e i progetti si fanno se c’è collaborazione e se si lavora per lo stesso obiettivo. Per questo è importante che si parli di quello che si fa dentro. Abbiamo un’attenzione per i parenti, ma soprattutto per i figli. Abbiamo il nido intitolato a Leda Colombini che ha fondato l’associazione “A Roma, Insieme”, lei non c’è più, ma il volontariato continua. Noi abbiamo questa piccola sezione, che come potrà vedere ricorda più un nido che una sezione detentiva. Oggi il nido è sovraffollato perché ci sono 22 bambini e il massimo è 18. Puntiamo soprattutto sulla scolarizzazione dei bambini, abbiamo il pullmino con i volontari che vengono a prendere i bambini e li portano ai nidi dalle 8 alle 16.30

Da quando tempo lei lavora in questo carcere, cosa ha fatto prima?
Per cinque anni vice in un carcere maschile a Rimini, da 15 anni sono qui come vice direttore e direttore da nove mesi, quindi da 21 anni.

Come mai negli altri carceri italiani non c’è un servizio come il vostro e che funziona bene come quello voluto da Leda Colombini?
Esistono altri tipi di strutture, ma noi abbiamo più mamme con bambini. L’Icam a Milano funziona come casa famiglia, è esterno al carcere. Il nostro forse si differenzia per fatto che è tutto al femminile, e da sempre lavoriamo sul messaggio della maternità.

C’è una differenza nella riabilitazione delle mamme detenute che hanno commesso reati comuni e quelle che stanno al carcere duro?
Lei tocca un argomento delicato, ma quello della maternità le accomuna tutte. Il grande dolore delle donne chiuse in massima sicurezza, o la ragazza al primo furto, se ha figli fuori soffre da morire per questa separazione. La paura di perdere i figli è il dolore più grande, perché stanno fuori, perché quelle che hanno i figli fino a tre anni li tengono qui. Questa è la grande sofferenza delle donne madri

Ma forse anche la grande forza delle madri
E’ anche la grande forza che aiuta e su cui noi puntiamo molto. C’è stato un corso un po’ di tempo fa sull’importanza della genitorialità anche come risorsa, e come ha detto lei, io sono convinta che il fatto di avere dei figli fuori può essere la molla per tornare nella società senza compiere altri reati, ma anche di conservare il senso di maternità. Abbiamo oltre al giardino, una ludoteca a dimensione di bambino, perché per il bambino non è bello andare a trovare la mamma in carcere, c’è il senso di vergogna, quindi lo spazio è pensato in modo accogliente

Il punto fondamentale per una donna detenuta è il forte senso di maternità che porta a fare le scelte migliori per lei e per i figli, penso alle testimoni di giustizia legate alla ‘ndrangheta ad esempio, è vero secondo lei?
Si, noi, esempio abbiamo avuto una ragazza rom, loro sono sottomesse ai mariti perché la loro cultura è basata sul fatto che si deve rubare perché viene imposto dai mariti. Noi premendo sull’affetto che provava per i figli siamo riusciti a convincerla a smettere di commettere reati, lei ha abbandonato il marito e poi è stata abbandonata dal marito e dalla comunità. Ma questo le ha permesso di salvare se stessa e i figli, insomma ha rotto gli schemi culturali

Ci vuole un grande coraggio rompere gli schemi di una cultura millenaria come quella dei rom, abbandonare la famiglia per dare ai figli una vita migliore
Ma ci vuole tanta forza per abituarle a mandare i figli al nido, perché i figli devono andare a scuola, al nido, alle elementari è lì che nasce l’integrazione tra rom e cultura italiana

Qual è la cosa a cui tiene molto che spera di veder realizzato qui nel carcere?
La cosa più importante, che ancora non abbiamo e che spero che tra un paio di anni lei ritorni e vediamo se siamo riusciti ad ottenere, è quello di avere una cucina che lavori per l’esterno, un servizio di catering di cucina anche internazionale, che permetta alla maggior parte delle detenute di lavorare. Nei carceri del nord c’è l’esempio del panettone Giotto, a Parma, fanno un panettone ottimo a livello industriale. Perché quello che manca oggi è questo: su 400 donne ne lavorano solo 80 sono poche ne devono lavorare di più. Alcune lavorano anche all’esterno, noi puntiamo molto sul lavoro all’esterno in semilibertà, insomma è un modo per dare fiducia.

Al ritorno riprendiamo l’autobus e poi la metro. Ci guardano tutti, siamo stati a trovare le nostre parenti detenute. Il cancello dal quale siamo uscite non lascia dubbi. Solo una vecchietta ci rivolge la parola e ci raccomanda un mercato vicino a Rebibbia: “Costa tutto molto poco, la cicoria a 25 centesimi, come si può rinunciare, con la pensione che abbiamo”, ci dice. Già come si fa a rinunciare.

Il servizio fotografico sul prossimo numero di Noidonne

Maria Fabbricatore, NoiDonne

06 Feb, 2014

Ponte Galeria, parlano i reclusi del Cie: “Neanche il papa ci ascolta”

Ponte Galeria è una località suburbana a nord ovest della Capitale, stretta tra il raccordo e la Roma-Fiumicino. Qui sorge l’omonimo Cie. Una gabbia a cielo aperto, circondata da una rete, un fossato, un muro di cinta e ancora sbarre di metallo per impedire agli “ospiti” di fuggire. Già dall’esterno è difficile avere dubbi sulla natura detentiva della struttura, entrandoci non si può che confutarlo.
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05 Feb, 2014

Strasburgo vota la tabella di marcia contro l’omofobia

Ritiene che la scuola sia un ambiente fondamentale per la promozione dei messaggi di rispetto e “invita gli Stati membri ad agire per dare impulso a una conoscenza obiettiva delle problematiche relative all’orientamento sessuale, all’identità e all’espressione di genere… esprime preoccupazione per il fatto che i giovani Lgbti e coloro che sono considerati tali corrano un rischio maggiore di essere vittime di bullismo”.
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04 Feb, 2014

Migranti abbandonati nel Cara allagato. Presto il Garante regionale dei rifugiati

In 800, tra cui 80 minorenni, sono rimasti nel Centro senza luce, con cibo di fortuna e senza acqua potabile. Peciola (Sel): “Sono presenti mamme con bambini anche molto piccoli, che non possono rimanere nella struttura in quelle condizioni”. Bonafoni (Pl): “Giovedì legge in commissione alla Pisana” LE FOTO

Isolati e allagati. Così sono rimasti gli 800 migranti del Cara di Castelnuovo di Porto in questi giorni di maltempo. Strade bloccate da frane e smottamenti hanno reso per due giorni impossibile raggiungere la struttura Porto che sorge in una piana vicinissima al Tevere. E l’emergenza non è finita: oggi erano ancora visibili i segni dell’acqua sui muri e sono ancora in corso gli interventi di ripristino per i danni subiti. “E’ una situazione ancora molto precaria per i rifugiati e richiedenti asilo politico ed è in corso la riorganizzazione del funzionamento della struttura“, fa sapere Gianluca Peciola di Sel che oggi ha visitato il centro. Venerdì, con il nubifragio, la struttura si è completamente allagata (guarda le foto) e i migranti, tra cui 80 minorenni, sono stati costretti a scappare sui tetti. Molti di loro sono rimasti senza documenti.

SENZA SOCCORSI – “L’acqua – racconta la consigliera Marta Bonafoni (Pl) che ha raccolto alcune testimonianze – superava i sessanta centimetri d’altezza. Un fiume che ha allagato tutto: la mensa, le cucine, l’ambulatorio medico, gli uffici e tutti i locali destinati alle famiglie di richiedenti asilo – soprattutto quelle con bambini – ubicate al pian terreno. Chi era dentro – continua Bonafoni – non poteva uscire, e chi era fuori non poteva arrivare. Alcuni operatori hanno lanciato l’allarme ma secondo i loro racconti né la Protezione Civile né i Vigili del Fuoco sarebbero intervenuti fino alla sera, quando con un canotto sono state evacuate però solo 24 persone”.

Oggi manca ancora l’acqua potabile e con le cucine allagate sono stati garantiti solo pasti di fortuna. A denunciare la situazione erano stati i movimenti per il diritto all’abitare già venerdì. Giorno in cui uno degli operatori del centro è rimasto folgorato in seguito a un corto circuito.

SOVRAFFOLLAMENTO – “Come ho potuto verificare nel corso del sopralluogo – aggiunge Peciola – reso possibile grazie alla disponibilità della Prefettura nonostante il poco preavviso della visita, sono evidenti i segni del sovraffollamento e le stanze che ho potuto vedere sono in condizioni fatiscenti. Nel Cara sono presenti mamme con bambini anche molto piccoli, che non possono rimanere nella struttura in quelle condizioni, devono essere trasferiti in luoghi più adatti”.

IL GARANTE DEI DIRITTI DEI RIFUGIATI – Giovedì prossimo, fa sapere la consigliera Bonafoni, “in Commissione Politiche Sociali alla Pisana verrà discussa la legge sull’istituzione del Garante dei diritti dei rifugiati. Una figura che si occuperà anche di supervisionare le strutture destinate ad accogliere i rifugiati e i richiedenti asilo della nostra Regione, accertando la loro idoneità e la loro rispondenza a tutti gli standard, di legalità e civiltà. Un importante collegamento tra le istituzioni e i centri che potrà scongiurare casi di silenzio assordante come quello del Cara di Castelnuovo di Porto”.

04 Feb, 2014

Cari sessisti, ci insultate e ci accusate ma avete solo paura

È sempre colpa nostra. Davvero incredibile il masochismo femminile. Un maschietto di quart’ordine lancia un insulto becero ad un gruppo di donne che lavorano nel complicato mondo della politica e sotto accusa, con un abracadabra dell’inconscio collettivo, finiscono le femministe di “Se non ora quando”, ree di aver costruito una gigantesca manifestazione contro un altro maschietto ineducabile che, incurante delle responsabilità della sua alta carica, collezionava favorite come un sultano, impegnava il suo tempo in orgette e barzellette, sdoganando pericolosamente quella bassa meccanica mentale del maschio-massa secondo cui le donne sono “tutte puttane meno mia sorella”, e quindi vincono quelle che la danno via facile, zitte “bone” e disponibili e più giovani sono meglio è, perciò minorenni è il massimo.

Complimenti, c’è di che essere fiere di noi. Il deputato Massimo De Rosa dice a un gruppo di sue colleghe che hanno conquistato la prestigiosa carica in virtù di una loro felice propensione ad eccellere nel sesso orale, e la colpa è della Guzzanti che ha detto alla Carfagna eccetera eccetera eccetera.

Nemmeno mia madre, una vera regina dell’autolesionismo, riusciva a farsi del male con questa abilità sopraffina. E dire che le donne della sua generazione con l’autosvalutazione ci andavano a nozze.
Proviamo, noi che siamo venute dopo, a razionalizzare. E partiamo, rispettosamente, da Mara Carfagna.

La sua sfolgorante bellezza le ha certamente aperto le porte del cuore dell’allora Presidente del Consiglio. Lui ne ha fatto talmente poco mistero che la sua signora dell’epoca, Veronica, si è pure scocciata su La Repubblica, con un seguito micidiale di ampio e circostanziato dibattito. La bella ministra, poi, si è tagliata i capelli, si è comprata un stock di tailleur e si è messa a lavorare. Tutto è bene quel che finisce bene.

Resta il fatto che bellezza compiacenza e accettazione del ruolo (di funzione del desiderio maschile) ancora, purtroppo, sono elementi tristemente determinanti nella promozione sociale femminile.
Se una donna è giovane e bella (e di belle ce n’è sempre di più), anche se ha tre lauree e un talento strepitoso, anche se studia e si impegna e fatica come un mulo, viene comunque sfiorata, almeno una volta, dalla battuta: “e con chi è andata letto questa per arrivare dove è arrivata?”.
Automatismi del maschio meno progredito (e ce n’è ancora parecchi). Subcultura desolante. D’accordo. Ma è così. E lo sappiamo tutti.

Perciò chi è giovane e brutta, o non più giovane e così così, rischia di restare al palo. Non parte. Non partecipa alla gara. O partecipa con un handicap. Chi, al contrario, è in possesso dei requisiti giusti per concorrere al ruolo di pupa del capo, anche se è un genio, viene inchiodata alla croce della sue misure… Parliamo delle bambole. Fino alla metà del secolo scorso erano bebè, le bambine le cullavano, le sgridavano, le imboccavano e il modello era essere mamme.

Nel 1959 nasce Barbie. Ha uno stacco di coscia da soubrette, i capelli lunghi e biondi, le tettine, gli occhioni, il bikini. La bambine la vestono la svestono la pettinano. Poi comprano la casa il pony la spider la sala da ballo… il modello è essere belle.
Ci finiamo dentro tutte, da quelle che erano bambine in quegli anni, come me, a quelle che erano bambine ieri o adesso. Sculetta sculetta qualcosa accadrà.

È triste la battuta con cui Massimo De Rosa ha offeso le deputate, è deprimente. Ma non stupisce.
Il sessismo, come il razzismo, è un’etichetta, una coperta stretta. Come il razzismo, il sessismo è molto più radicato e profondo di quanto non si creda. Se la tirano addosso, l’accusa di sessismo, i contendenti politici, in nome di una correttezza formale, di una politesse istituzionale, che non morde veramente nel cuore del problema.

Il cuore del problema è che le donne non sono ancora persone, non lo sono fino in fondo, non hanno accesso, nel mistero dei precordi, del prerazionale, dell’indicibile, allo stesso rispetto di cui sono oggetto gli uomini. Sempre seconde, sempre cooptate, mai soggetto, mai protagoniste, mai padrone del gioco. Sempre di servizio. Sempre scelte o scartate, in base ai mutevoli umori del momento, scansate o invitate nel club maschile, che regge i destini del mondo. È questo che è davvero grave.

La non equipollenza, la tragedia della disparità. E, se salgono davvero in alto, come l’onorevole Boldrini, le donne finiscono travolte dal terrore animale che molti uomini provano, di fronte a chi, oltre al potere di generare, conquista anche quello di parlare, decidere, comandare.

Lidia Ravera, Huffington Post

03 Feb, 2014

Lettera aperta alle grilline

Ma oggi, per fortuna, il maschilismo non si porta bene. È retroguardia. Un riflesso condizionato che stona con le promesse di rinascita di una cittadinanza basata sulle relazioni. E dunque, nell’Italia digitale, ammettiamolo, lo spirito battutaro del maschio non solo non fa più ridere nessuno, ma ci intristisce molto. Siamo oltre la commedia all’italiana.
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