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27 Nov, 2014

Scuola, la sentenza è storica: “I precari vanno assunti”

La corte di giu­sti­zia euro­pea: il governo ita­liano sta­bi­lizzi pre­cari della scuola con il con­tratto a ter­mine. Non ci sono solo i 148 mila che Renzi vuole assu­mere. Ce ne sono almeno altri 100 mila. Col­pito al cuore il sistema della pre­ca­rietà di Stato. Torna la demo­cra­zia nelle scuole ita­liane?

La Corte di giu­sti­zia dell’Unione Euro­pea ha col­pito al cuore il sistema del pre­ca­riato nella scuola in Ita­lia. Con una sen­tenza attesa da tempo ieri la corte di Lus­sem­burgo pre­sie­duta dal giu­dice slo­veno Marko Ile­sic ha dichia­rato ille­gali i con­tratti di lavoro a tempo deter­mi­nato sti­pu­lati in suc­ces­sione oltre i 36 mesi (tre anni). Da oggi i docenti pre­cari e il per­so­nale Ata, che hanno supe­rato un con­corso nel 1999, o hanno otte­nuto un’abilitazione, hanno diritto ad essere assunti nella scuola. La Corte ha ripor­tato sui binari del diritto un paese che ha cer­cato con tutti i mezzi di restare nell’illegalità con il Dl 368 del 2001 che per­mette un numero illi­mi­tato di rin­novi con­trat­tuali solo nella scuola.

L’Italia sarà così obbli­gata, pena risar­ci­menti milio­nari e decine di migliaia di ricorsi ai giu­dici del lavoro, a tor­nare a far parte dello stato di diritto comu­ni­ta­rio dopo quin­dici anni.

La sen­tenza ha un valore epo­cale per­ché vale sia per il lavoro pub­blico che per quello pri­vato. Dun­que sia per la scuola e la pub­blica ammi­ni­stra­zione sia per le imprese. Que­sto signi­fica che la riforma Poletti (la prima parte del Jobs Act) che ha can­cel­lato la cosid­detta «cau­sa­lità» dei con­tratti a ter­mine può essere con­si­de­rata non valida poi­ché con­trav­viene alla diret­tiva euro­pea 70 del 1999. Quella che vieta i rin­novi dei con­tratti a ter­mine oltre i tre anni, ma che il governo Renzi non ha rispet­tato. Con­tro que­sta «riforma», i giu­ri­sti demo­cra­tici, la Cgil e l’Usb hanno già pre­sen­tato una denun­cia alla Com­mis­sione Euro­pea. In caso di parere posi­tivo, il ricorso pas­serà alla Corte che, alla luce della sen­tenza di ieri, non potrà che con­fer­mare il suo orien­ta­mento. Nel frat­tempo in Ita­lia, i giu­dici del lavoro saranno costretti ad appli­care la sen­tenza nella scuola o negli enti di ricerca e nella P.A.

La Corte ha smon­tato uno degli alibi usati dai governi per non fare le assun­zioni: quello dei con­corsi pub­blici. Una rarità ormai, di recente risco­perto in maniera cao­tica e ini­qua dal mini­stero dell’Istruzione. Ebbene, i lavo­ra­tori dovranno essere assunti subito senza aspet­tare l’epletamento delle pro­ce­dure concorsuali.

La sen­tenza fa inol­tre tra­bal­lare le basi sulle quali è stato costruito l’edificio della pre­ca­rietà sin dal 1997, quando il centro-sinistra di Prodi approvò il fami­ge­rato «pac­chetto Treu». Riso­lu­tivi sem­brano i punti 100 e 110 della sen­tenza a favore di otto docenti e col­la­bo­ra­tori ammi­ni­stra­tivi napo­le­tani che hanno lavo­rato per il mini­stero dell’Istruzione per non meno di 45 mesi su un periodo di 5 anni. Il primo sta­bi­li­sce che il con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato è «la forma comune dei rap­porti di lavoro» anche in set­tori come la scuola dove il tempo deter­mi­nato rap­pre­senta «una carat­te­ri­stica dell’impiego». Il secondo punto smen­ti­sce le poli­ti­che dell’austerità con le quali i governi hanno giu­sti­fi­cato il blocco delle assun­zioni in tutto il pub­blico impiego: il rigore del bilan­cio non può giu­sti­fi­care il «ricorso abu­sivo a una suc­ces­sione di con­tratti di lavoro a tempo deter­mi­nato». Biso­gnava aspet­tare l’Europa per affer­mare la cer­tezza di que­sti prin­cipi. A tanto è arri­vata la bar­ba­rie poli­tica e giu­ri­dica nel nostro paese.

Ieri il governo Renzi ha pro­vato a fare il vago. La rispo­sta del mini­stro dell’Istruzione Ste­fa­nia Gian­nini era pre­ve­di­bile: la «buona scuola» pre­vede l’assunzione dei 148 mila docenti pre­cari nelle gra­dua­to­rie ad esau­ri­mento e il con­corso per 40 mila nel 2015. Tutto a posto allora? Per nulla. La sen­tenza della Corte chia­ri­sce la fon­da­men­tale discri­mi­na­zione com­piuta dal governo ai danni di almeno altre 100 mila per­sone che non ver­ranno assunte a set­tem­bre, pur aven­done i titoli. Si tratta dei docenti abi­li­tati Pas e Tfa, oltre che del per­so­nale Ata (almeno 15 mila). La mag­gior parte ha lavo­rato più di 36 mesi nella scuola. Si parla di 70 mila, ma anche di 100 mila.

Sui numeri non c’è cer­tezza per­ché manca un cen­si­mento serio, l’unico stru­mento per pro­ce­dere ad un vero piano per le assun­zioni. La sen­tenza è infine un colpo tre­mendo, anche finan­zia­rio, alla poli­tica degli annunci dell’esecutivo. Se, com’è pre­ve­di­bile, con­ti­nuerà sulla sua strada, allora dovrà pre­pa­rarsi a pagare milioni di euro in risar­ci­menti. Nei tri­bu­nali ita­liani giac­ciono almeno die­ci­mila ricorsi in attesa della sen­tenza della Corte. Da oggi i pro­cessi di mol­ti­pli­che­ranno a dismi­sura e si con­clu­de­ranno con una con­danna. Renzi si trova davanti a que­sta alter­na­tiva: assu­mere fino a 300 mila per­sone nella scuola, oppure ini­ziare a pagar­gli i danni.

Tutti i sin­da­cati della scuola stanno affi­lando le armi giu­ri­di­che. L’Anief, che tra i primi ha ini­ziato a per­cor­rere que­sta strada, pre­para una valanga di nuovi ricorsi per imporre il paga­mento degli scatti di anzia­nità ai pre­cari, non­ché le loro men­si­lità estive per un totale di 20 mila euro. «È una pagina sto­rica – ha detto Mar­cello Paci­fico, pre­si­dente Anief – Ora è asso­dato che non esi­stono ragioni ogget­tive per discri­mi­nare chi è stato assunto a tempo deter­mi­nato nella scuola dal 1999». La Gilda di Rino Di Meglio ha reca­pi­tato una dif­fida al governo. Se entro dicem­bre non avvierà la sta­bi­liz­za­zione dei pre­cari per­cor­rerà fino in fondo la via giudiziaria.

«La que­stione pre­ca­riato è esplo­siva – sostiene Mas­simo Di Menna della Uil Scuola – Con­ferma la mio­pia di una gestione del per­so­nale attenta al rispar­mio anzi­ché al rispetto dei diritti dei lavo­ra­tori». Piero Ber­noc­chi dei Cobas chiama alla mobi­li­ta­zione con­tro il governo che, come i pre­ce­denti, pre­fe­rirà pagare le multe piut­to­sto che rispet­tare il diritto: «Con il suo piano Renzi voleva espel­lere il 50% dei docenti met­tendo pre­cari con­tro pre­cari, fasce con­tro fasce. Non c’è riu­scito. Ora biso­gna esten­dere que­sta con­qui­sta a tutto il pub­blico impiego». «Non biso­gna illu­dere i pre­cari, non pos­sono aspet­tare gli anni del dibat­ti­mento nelle aule legali — sostiene Cri­stiano Fiorentini(Usb) — La sen­tenza non deter­mina assun­zioni imme­diate. Ci vuole una norma per la stabilizzazione».

«Il governo ha soste­nuto che la Cgil difende i lavo­ra­tori sta­bili e discri­mina quelli pre­cari — sostiene Mimmo Pan­ta­leo, segre­ta­rio Flc-Cgil — La sen­tenza della Corte di Giu­sti­zia euro­pea sulla scuola ha ribal­tato que­sta fal­sità e dimo­stra come il nostro sin­da­cato si stia bat­tendo per i pre­cari. Que­sta sen­tenza raf­forza le ragioni dello scio­pero gene­rale del 12 dicem­bre». Giunta all’indomani dell’approvazione alla Camera del Jobs Act, la sen­tenza col­pi­sce uno dei pila­stri della riforma tar­gata Renzi-Poletti: vieta cioè di rin­no­vare infi­nite volte il con­tratto a ter­mine: «Ora devono sce­gliere — con­ti­nua il sin­da­ca­li­sta — O affron­tano migliaia di ricorsi, e li per­de­ranno, oppure sta­bi­liz­zano tutti i pre­cari e non solo quelli iscritti nelle gra­dua­to­rie a esaurimento».

La sen­tenza della Corte Ue è uno di quei «casi in cui diciamo meno male che l’Europa c’è — ha com­men­tato la segre­ta­ria Cgil Susanna Camusso — Non c’è dub­bio che que­sta sen­tenza sia un pre­ce­dente per i pre­cari della P.A. e sul decreto Poletti. Il governo deve rispon­dere sul fatto che non pro­cede alla sta­bi­liz­za­zione dei precari».

Roberto Ciccarelli, Il Manifesto

19 Nov, 2014

Violenza sulle donne: una vittima ogni due giorni

Il 2013 è stato un anno nero per i femminicidi, con 179 donne uccise, in pratica una vittima ogni due giorni. Rispetto alle 157 del 2012, le donne ammazzate sono aumentate del 14%. A rilevarlo è l’Eures nel secondo rapporto sul femminicidio in Italia, che elenca le statistiche degli omicidi volontari in cui le vittime sono donne.Aumentano quelli in ambito familiare, +16,2%, passando da 105 a 122, così come pure nei contesti di prossimità, rapporti di vicinato, amicizia o lavoro, da 14 a 22. Rientrano nel computo anche le donne uccise dalla criminalità, 28 lo scorso anno: in particolare si tratta di omicidi a seguito di rapina, dei quali sono vittima soprattutto donne anziane.

Anche nel 2013, in 7 casi su 10 (68,2%, pari a 122 in valori assoluti) i femminicidi si sono consumati all’interno del contesto familiare o affettivo, in linea con il dato relativo al periodo 2000-2013 (70,5%). Con questi numeri, il 2013 ha la più elevata percentuale di donne tra le vittime di omicidio mai registrata in Italia, pari al 35,7% dei morti ammazzati (179 sui 502), “consolidando – sottolinea il dossier – un processo di femminilizzazione nella vittimologia dell’omicidio particolarmente accelerato negli ultimi 25 anni, considerando che le donne rappresentavano nel 1990 appena l’11,1% delle vittime totali”.

Per 10 anni quasi la metà dei femminicidi è avvenuto al Nord, dal 2013 c’è invece stata un’inversione di tendenza sotto il profilo territoriale, divenendo il Sud l’area a più alto rischio con 75 vittime ed una crescita del 27,1% sull’anno precedente, anche a causa del decremento registrato nelle regioni del Nord (-21% e 60 vittime). Lo indica il rapporto Eures sul femminicidio in Italia, dal quale risulta anche un raddoppio delle vittime al Centro Italia, dalle 22 nel 2012 a 44.

Il Lazio e la Campania con 20 donne uccise presentano nel 2013 il più alto numero di femminicidi tra le regioni italiane, seguite da Lombardia (19) e Puglia (15). Ma è l’Umbria – come riporta il dossier – a registrare l’indice più alto (12,9 femminicidi per milione di donne residenti). Nella graduatoria provinciale ai primi posti Roma (con 11 femminicidi nel 2013), Torino (9 vittime) e Bari (8). Il femminicidio nelle regioni del Nord si configura essenzialmente come fenomeno familiare, con 46 vittime su 60, pari al 76,7% del totale; mentre sono il 68,2% dei casi al Centro e il 61,3% al Sud (con 46 donne uccise in famiglia sulle 75 vittime censite nell’area). Qui al contrario è più alta l’incidenza delle donne uccise all’interno di rapporti di lavoro o di vicinato (14,7% a fronte del 5% al Nord) e dalla criminalità (18,7% contro l’11,4% del Centro e l’11,7% del Nord).

Ottantuno donne, il 66,4% delle vittime dei femminicidi in ambito familiare, hanno trovato la morte per mano del coniuge, del partner o dell’ex partner; la maggior parte per mano del marito o convivente (55, pari al 45,1%), cui seguono gli ex coniugi/ex partner (18 vittime, pari al 14,8%) ed i partner non conviventi (8 vittime, pari al 6,6%).

I dati relativi al 2013 – come rileva la ricerca Eures sui femminicidi in Italia – sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli complessivamente censiti a partire dall’anno 2000. Lo scorso anno si è avuto, “anche per effetto del perdurare della crisi”, un forte aumento dei matricidi, spesso compiuti per ragioni di denaro o per una esasperazione dei rapporti derivanti da convivenze imposte dalla necessità: sono infatti 23 le madri uccise nell’ultimo anno, pari al 18,9% dei femminicidi familiari, a fronte del 15,2% rilevato nel 2012 e del 12,7% censito nell’intero periodo 2000-2013 (215 matricidi). Ad uccidere sono nel 91,7% dei casi i figli maschi e nell’8,3% le figlie femmine.

Il 2013 rileva una significativa crescita dell’età media delle vittime di femminicidio, passata da 50 anni nel 2012 a 53,4 (da 46,5 a 51,5 anni nei soli femminicidi familiari).
Diminuiscono le vittime con meno di 35 anni (da 48 a 37), e aumentano quelle nelle fasce 45-54 anni (+72,2% passando da 18 a 31) e 55-64 anni (+73,3%, da 15 a 26) e, in quella 35-44 anni (+26,1%, passando da 23 a 29 vittime) e tra le over 64 (da 51 a 56, pari a +9,8%).

A “mani nude”, per le percosse, strangolamento o soffocamento: così nel 2013 è morta ammazzata una donna su tre. A rilevarlo è il rapporto Eures che mette in relazione tale modalità di esecuzione ad un “più alto grado di violenza e rancore”.

Se le armi da fuoco si confermano come strumento principale nei casi di femminicidio (45,1% dei casi, seguite, con il 25,1%, dalle armi da taglio), la gerarchia degli strumenti si va modificando: le “mani nude” sono il mezzo più ricorrente, 51 vittime, pari al 28,5% dei casi; in particolare le percosse hanno riguardato il 5,6% dei casi, lo strangolamento il 10,6% e il soffocamento per il 12,3%. Di poco inferiore la percentuale dei femminicidi con armi da fuoco (49, pari al 27,4% del totale) e con armi da taglio (45 vittime, pari al 25,1%).

Collegato alla modalità di esecuzione è il movente. Quello ‘passionale o del possesso’ continua ad essere il più frequente (504 casi tra il 2000 e il 2013, il 31,7% del totale): “Generalmente – dice il dossier – è la reazione dell’uomo alla decisione della donna di interrompere/chiudere un legame, più o meno formalizzato, o comunque di non volerlo ricostruire”. Il secondo gruppo riguarda la sfera del “conflitto quotidiano”, della litigiosità anche banale, della gestione della casa, ed è alla base del 20,8% dei femminicidi familiari censiti (331 in valori assoluti). A questi possono essere aggiunti gli omicidi scaturiti da questioni di interesse o denaro, 19 nel 2013, il 16%, e si tratta prevalentemente di matricidi.

“COLPEVOLI DI DECIDERE” – Oltre 330 donne sono state uccise, dal 2000 a oggi, per aver lasciato il proprio compagno. Quasi la metà nei primi 90 giorni dalla separazione. Il rapporto Eures, diffuso oggi, li definisce i ‘femminicidi del possesso’, e conseguono generalmente alla decisione della vittima di uscire da una relazione di coppia; a tale dinamica sono da attribuire con certezza almeno 213 femminicidi tra le coppie separate, e 121 casi in quelle ancora unite dove la separazione si manifesta come intenzione.
Il 45,9% avvengono nei primi tre mesi dalla rottura (il 21,6% nel primo mese e il 24,3% tra il primo e il terzo mese). Ma il “tarlo dell’abbandono”, segnala il dossier, ha una forte capacità di persistenza e di riattivazione nei casi di un nuovo partner della ex, della separazione legale, o dell’affidamento dei figli. Tanto che il 3,2% dei femminicidi nelle coppie separate avviene dopo 5 anni dalla separazione.
Il femminicidio è spesso un’escalation di violenze e/o vessazioni di carattere fisico. I dati disponibili indicano un’elevata frequenza di maltrattamenti pregressi a danno delle vittime, censiti nel 33,3% dei femminicidi di coppia nel 2013 (27 in valori assoluti) e nel 22,5% tra il 2000-2013 (193 in valori assoluti). Eures sottolinea “l’inefficacia/inadeguatezza della risposta istituzionale alla richiesta d’aiuto delle donne vittime di violenza all’interno della coppia, visto che nel 2013 ben il 51,9% delle future vittime di omicidio (17 in valori assoluti) aveva segnalato/denunciato alle Istituzioni le violenze subite”.

13 Nov, 2014

Roma ladrona si scopre leghista

Tor Sapienza. Dopo l’assalto anti immigrati, Salvini: «Vengo anch’io». Viaggio nel quartiere periferico della Capitale, terra di conquista della nuova destra, dove crescono umori xenofobi.

Nel mezzo di una gior­nata di piog­gia durante la quale Roma ha sco­perto di essere raz­zi­sta, le nuvole si aprono e il sole scalda i lotti delle case popo­lari di Tor Sapienza, quar­tiere lungo la via Pre­ne­stina che solo poche ore prima ha ospi­tato una vera e pro­pria bat­ta­glia. Resta qual­che cas­so­netto incen­diato, un pre­si­dio delle forze di poli­zia e gli sguardi di chi osserva dalle fine­stre dei palaz­zoni. Solo poche ore prima si è con­su­mato l’assalto del cen­tro d’accoglienza di viale Morandi.

La strut­tura, all’interno della quale vivono 36 minori, è stata presa di mira da un’agguerrita mino­ranza di qual­che decina di per­sone che si è presa la briga di pas­sare ai fatti e di inter­pre­tare il senso comune stri­sciante ormai da tempo anche da que­ste parti: «Noi ita­liani siamo abban­do­nati, per quelli là invece è tutto garan­tito». «Quelli là» sono gli stra­nieri, comu­ni­tari ed extra­co­mu­ni­tari, senza per­messo di sog­giorno e richie­denti asilo poli­tico, mino­renni e adulti: tutti asso­ciati al degrado e al senso di soli­tu­dine che si respira tra le circa due­mila anime che vivono nelle case popo­lari con la corte più grande d’Europa. Sono state costruite negli anni Set­tanta e Ottanta dalle giunte di sini­stra e gli spazi desti­nati ai ser­vizi sociali non sono mai stati utilizzati.

Il giorno prima degli scon­tri, una gio­vane donna aveva denun­ciato il ten­ta­tivo di stu­pro ad opera di due uomini rico­no­sciuti come «romeni». Alla grave aggres­sione era seguito il pestag­gio di un mino­renne ben­ga­lese ad opera di un gruppo di ita­liani. Poi, un’assemblea in piazza, toni accesi e parole di fuoco. La situa­zione è dege­ne­rata nella notte tra lunedì e mar­tedì, quando un gruppo di incap­puc­ciati ha deciso di pun­tare verso il cen­tro d’accoglienza richia­mando in piazza altri cit­ta­dini del quar­tiere. È finita con una carica della poli­zia, auto­vet­ture dan­neg­giate, lan­cio di sassi e bombe carta. Così, que­sto spic­chio di peri­fe­ria romana con le vie inti­to­late ai pit­tori dell’avanguardia ita­liana del Nove­cento, stretta tra il mat­ta­toio e la rimessa degli auto­bus, le gru dell’ennesima spe­cu­la­zione edi­li­zia da un lato e la grande occu­pa­zione mul­tiet­nica di Metro­pliz dall’altro, è diven­tato il cro­ce­via della crisi ita­liana e della guerra tra poveri che il disa­gio e gli impren­di­tori della paura rischiano di scatenare.

Se n’è accorto Mat­teo Sal­vini, segre­ta­rio della Lega che da que­ste parti prova a pren­dere piede ormai da qual­che tempo, gra­zie all’alleanza tra l’eurodeputato padano Mario Bor­ghe­zio e i sedi­centi «fasci­sti del terzo mil­len­nio» di Casa­Pound: «Ho rice­vuto molte chia­mate da Roma, in molti chie­dono la mia pre­senza e quella della Lega», annun­cia Sal­vini. Che poi pro­mette: «Ci andrò». Ma dopo il 24 novem­bre, per­ché prima è impe­gnato nella cam­pa­gna elet­to­rale delle regio­nali dell’Emilia Roma­gna (Bor­ghe­zio invece non perde tempo e annun­cia per domani la sua pre­senza nella Capi­tale). Il lea­der leghi­sta si pro­duce in distin­zioni pelose ma acca­rezza i pre­giu­dizi raz­zi­stoidi: «Ogni vio­lenza va sem­pre con­dan­nata. Ma l’immigrazione incon­trol­lata e il raz­zi­smo nei con­fronti degli ita­liani, che non hanno alber­ghi pagati, rischia di ali­men­tare rea­zioni sbagliate».

L’«albergo pagato» di cui parla Sal­vini quasi a voler indi­care ancora una volta l’obiettivo da col­pire è il cen­tro d’accoglienza sotto asse­dio ora pre­si­diato dai blin­dati: vi abi­tano soprat­tutto ragaz­zini, mino­renni la cui custo­dia è affi­data dalla legge al Comune di Roma. La strut­tura è nata nel 2011 a seguito dell’«emergenza Nord Africa, per ospi­tare minori stra­nieri non accom­pa­gnati pro­ve­nienti per la gran parte dal Ban­gla­desh», spie­gano gli ope­ra­tori. Oggi è un Cen­tro di prima acco­glienza per minori e una strut­tura ade­rente allo Sprar, il Sistema di pro­te­zione per rifu­giati finan­ziato dall’Ue in rispetto ai trat­tati inter­na­zio­nali sul diritto d’asilo.

Gli xeno­fobi hanno inte­resse a far cir­co­lare la psi­cosi dell’«invasione» e dell’Italia terra di ben­godi per i migranti, ma gli ospiti in tutto il ter­ri­to­rio romano sono solo 2600 e troppo spesso vivono in posti tutt’altro che con­for­te­voli e con poca pos­si­bi­lità di spo­starsi. «La verità – riflette a testa bassa un ope­ra­tore – è che i cen­tri rischiano di diven­tare ghetti e di cadere nella spi­rale del degrado dei quar­tieri che li ospi­tano, come accade a volte per i campi nomadi».

Il rischio che la fiam­mata di Tor Sapienza attec­chi­sca in altri quar­tieri abban­do­nati al degrado è con­creto. La scin­tilla d’innesco arriva da Cor­colle, quar­tiere che si trova da que­sto lato della metro­poli ma ancora più in peri­fe­ria, al di là del Grande rac­cordo anu­lare: da quelle parti solo poche set­ti­mane fa sono scesi in strada con­tro la pre­senza dei migranti, dege­ne­rando in una vera “cac­cia al nero”. La guerra tra poveri, insomma, si è già mossa dalla cin­tura esterna della città verso la peri­fe­ria meno estrema.

Ora potrebbe arri­vare nel cuore della città. Il 15 novem­bre, un cor­teo di «comi­tati con­tro il degrado e per la sicu­rezza» par­tirà dall’Esquilino per arri­vare fino al Cam­pi­do­glio, per quello che viene annun­ciato con enfasi come «il giorno della mar­cia della ribel­lione dei rioni e dei quar­tieri di Roma» con­tro «campi rom» e «immi­gra­zione incon­trol­lata». Ci saranno, ad esem­pio, quelli di Ponte di Nona, che già da qual­che mese hanno dato vita al «Cen­tro azioni ope­ra­tive», una spe­cie di ronda che si pre­figge obiet­tivi come quello di vigi­lare «con­tro il peri­colo pro­ve­niente dal vicino campo Rom di via Salone». Molti di quelli che l’altra notte hanno mani­fe­stato a Tor Sapienza uti­liz­zano la pro­te­sta con­tro i migranti di Cor­colle a mo’ di esem­pio: «C’è poco da fare: se non ti muovi come hanno fatto loro, non ti ascoltano».

Giuliano Santoro, Il Manifesto

08 Nov, 2014

I medici non obiettori: “Abortire è sempre più difficile”

In Italia le interruzioni di gravidanza sono sempre più difficili, con molte donne costrette ad emigrare in un’altra regione o addirittura fuori dal paese per ottenere quello che la legge 194 in teoria garantisce. Lo affermano i medici della Laiga, (Libera associazione italiana dei ginecologi per l’applicazione della legge 194), riuniti in congresso oggi e domani a Napoli, che annunciano anche la nascita di una rete di avvocati che avranno il compito di sostenere pazienti e camici bianchi.

In alcune Regioni obiettori al 90%. I ginecologi obiettori di coscienza sono in numerosi in molte Regioni, un problema che a volte rende complicato interrompere una gravidanza non desiderata. “In alcune zone come Lazio, Campania, provincia di Bolzano i medici obiettori sono oltre il 90%, e questo spesso costringe le donne ad andare in un’altra regione – spiega la presidente Silvana Agatone – per le interruzioni nei primi tre mesi solo il 64% degli ospedali italiani è disponibile, mentre la legge prevederebbe che fossero il 100%. Per quelle superati i 90 giorni, che si fanno in presenza di gravi patologie del feto o rischi per la mamma, le strutture disponibili sono molte meno, e cominciano i pellegrinaggi che portano addirittura all’estero”.

Secondo Agatone le statistiche del ministero della Salute, che parlano di pochi aborti a settimana per i medici non obiettori, sono falsate. “Ci sono centri che fanno 70 interruzioni a settimana, e altri che mettono a disposizione al massimo due posti letto – spiega – nelle seconde è ovvio che risulta che i medici hanno fatto pochi aborti, ma quello che non si vede è che probabilmente le donne sono state costrette ad andare da un’altra parte’.

La rete di legali che sostiene le donne. Per questo Laiga ha inaugurato una rete nazionale di avvocati aiuterà le donne che hanno avuto difficoltà nell’accesso all’interruzione di gravidanza. “Attualmente i medici non obiettori applicano con preoccupazione la legge 194 – spiega la presidente Silvana Agatone – non solo perché le strutture non forniscono i mezzi ed il personale necessario, ma anche perché si opera tra mille difficoltà anche burocratiche e organizzative. A tutela delle scelte degli operatori, sarà presentata una rete di avvocati presenti su tutto il territorio nazionale, pronti a seguire l’iter di eventuali denunce nei confronti dei ginecologi e del personale non obiettore e a salvaguardia delle donne cui non siano riconosciuti i propri diritti riproduttivi”.

Formazione dei camici bianchi. A questa rete, spiega Agatone, se ne affiancherà un’altra di tutte le associazioni coinvolte nella tutela della salute riproduttiva della donna. “Questo servirà a concretizzare alcune richieste che riteniamo urgenti – sottolinea ancora Agatone – dalla formazione dei giovani, che nelle scuole di specializzazione non viene fatta, all’introduzione nei turnover dei medici non obiettori, all’aumento della prevenzione attraverso la contraccezione d’emergenza all’uso in tutta Italia della Ru486”.

La soluzione nel Lazio. Nel Lazio l’obiezione di coscienza ha raggiunto livelli mai visti tra ginecologi, anestesisti e infermieri. Ora le nuove linee guida sul funzionamento dei consultori familiari potrebbero cambiare la situazione. Con un decreto, il presidente Nicola Zingaretti ridefinisce, ha ristretto il diritto a non applicare la legge sull’aborto.

Obbligo di prescrivere la pillola del giorno dopo. Il decreto, infatti, se da una parte impone a chi lavora nei servizi territoriali l’obbligo di prescrivere tutte le forme di contraccezione, e senza potersi appellare ad alcuno scudo “morale” nemmeno per la pillola del giorno dopo, dall’altra ricorda ai medici i loro doveri verso la legge 194. Nessun medico può rifiutare ad una donna la prescrizione di un contraccettivo, pillola del giorno dopo e spirali.

Valeria Pini, La Repubblica

07 Nov, 2014

Sos lavoro e strutture scarse, così le donne rimandano

Madri “tardive” per scelta, per difficoltà a procreare, ma anche per necessità. E non sono più solo le più istruite a procrastinare, come trenta quarantanni fa, perché terminavano più tardi il periodo di formazione. Oggi il rimando è trasversale a tutte e riguarda in particolare le lavoratrici con contratti a termine. Avere un figlio e mantenere un’occupazione è difficile per tutte in Italia, scoraggiando molte che vogliono avere un figlio dall’entrare nel mercato del lavoro.
Chiara Saraceno, la Repubblica

06 Nov, 2014

Sfruttati a tempo indeterminato

In Europa e non solo, indipendentemente dalla crisi, spesso assunta a paravento per politiche discriminatorie, una parte non residuale della produzione, soprattutto agricola, è retta da schiavi al servizio di padroni. Sembra un’affermazione ideologica. Il senso di quanto affermato merita invece un approfondimento.

L’occasione è data dalla presentazione dell’ultimo dossier dell’associazione In Migrazione Onlus dal titolo emblematico: Sfruttati a tempo indeterminato. Sono raccolte le storie di alcuni braccianti indiani, soprattutto sikh, impiegati in provincia di Latina, che raccontano di violenze subite, sfruttamento, subordinazione, caporalato. Condizioni che non sono da considerare marginali o eccezionali nel sistema di produzione capitalistico mondiale, ma strutturali.

Questa tesi non è improvvisata. Una recente pubblicazione dal titolo Quasi schiavi, edita da Maggioli, a cura di Enzo Nocifora e con contributi di importanti sociologi, spiega bene la strutturazione nel sistema di produzione capitalistico del lavoro schiavistico. In Migrazione racconta come e perché ci si trovi di fronte a un sistema rodato di illeciti fondati su arruolamenti via cellulare, buste paga irregolari, ricatti e intimidazioni che svelano il vero business del settore.

L’evasione fiscale e contributiva fa da cornice a una zona grigia che nasconde milioni di euro sottratti indebitamente allo Stato e soprattutto ai lavoratori indiani. Questo sistema non si reggerebbe senza la complicità dei colletti bianchi dello sfruttamento. Commercialisti, avvocati, consulenti del lavoro, ragionieri che consentono allo sfruttamento di strutturarsi e di insediarsi tra le pieghe del sistema ufficiale e di fatturare milioni di euro.

Le storie dei braccianti sikh raccolte nel dossier raccontano la realtà di un paese ancora fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, quest’ultimo spesso immigrato e costretto a lavorare 14 ore al giorno, tutti i giorni, per 300/400 euro al mese. Datori di lavoro che pretendono di essere chiamati padrone, violenze e mortificazioni che rappresentano il volto più truce di un’Italia razzista, violenta e mafiosa. Si fanno chiamare padroni, ma sono dei miserabili. D’altro canto la recente alleanza Lega Nord-Casapound va esattamente in questa direzione.

L’alleanza tra il padronato razzista del nord e movimenti neofascisti cammina sulle gambe grasse di un’Italia volgare, pericolosa, xenofoba. È forse la palingenesi del nuovo secolo o forse l’anticipazione dell’Italia renziana, con operai e braccianti senza diritti, padroni arroganti che minacciano ritorsioni ad ogni rivendicazione, burocrati e professionisti complici per interesse. I dati riportati dal dossier di In Migrazione sono inquietanti.

Salari bassissimi (in media 3,00€/h a fronte degli 8,26 del contratto nazionale), orari improponibili (12/14 ore di media a fronte delle 6,40 ore del contratto nazionale) e spesso condizioni abitative inadeguate caratterizzano un contesto che favorisce il radicamento della criminalità organizzata nel settore agricolo.

Al contrario di tante realtà nazionali di sfruttamento della manodopera, che si configura con arruolamenti giornalieri a chiamata dei lavoratori, in molte realtà agricole del pontino si è davanti ad un impiego costante per periodi lunghi di un esercito fidelizzato di braccianti che garantisce un settore “grigio” di illegalità nel quale si muovono con destrezza alcuni imprenditori e i loro consulenti. Una sorta di lavoro garantito tradotto in “contratti a sfruttamento indeterminato”.

L’agricoltura rappresenta un comparto strategico per l’economia laziale, che senza il contributo dei lavoratori migranti sarebbe inesorabilmente in crisi con conseguenze economiche, lavorative e sociali gravissime. I braccianti indiani contribuiscono alla crescita e allo sviluppo economico e sociale della provincia di Latina. Nel territorio pontino, i registri anagrafici dell’Inps, anno 2012, registravano una presenza di 16.827 braccianti iscritti. La Cgil per l’anno precedente (2011) ha conteggiato 25.000 richieste presentate alla Prefettura di Latina, a fronte dei 6500 posti stabiliti dal decreto flussi per quel territorio, quattro volte la necessità dichiarata.

Una manodopera imponente, soprattutto migrante come conferma anche la Cgil, che si colloca in un territorio vastissimo (con 9500 aziende registrate alla Camera di Commercio di Latina al 31.12.2013). La pratica illegale del reclutamento, del caporalato e dello sfruttamento dei braccianti, secondo In Migrazione, è determinata da un sistema illegale diffuso territorialmente eppure gestito da gruppi ristretti di truffatori, mafiosi, sfruttatori.

Arrendersi sarebbe un errore. La Commissione antimafia ha ascoltato sia In Migrazione che la Flai Cgil mentre l’On. Mattiello ha proposto la riconduzione del reato di caporalato nell’art. 416 bis, ossia nell’associazione di stampo mafioso. Intanto In Migrazione, insieme alla Regione Lazio, in particolare assessorato all’agricoltura, Arsial e Tavolo della legalità e sicurezza, darà vita al progetto Bella Farnia, dal nome del residence dove risiede la maggior parte della comunità indiana di Sabaudia.

Il progetto, con il contributo della Flai-Cgil, prevede la realizzazione del primo centro polifunzionale con attività di mediazione culturale, insegnamento dell’italiano, assistenza legale e orientamento al lavoro. Un progetto concreto che vuole rompere isolamento, sfruttamento, segregazione.

Un’iniziativa coraggiosa, in un territorio difficile, dove insieme alle meravigliose bellezze naturalistiche dell’area persistono realtà feudali, caporalato, clan appartenenti a varie organizzazioni mafiosi e la tentazione costante di negare problemi sociali e sistemi criminali, pensando che le cose non potranno mai cambiare. In Migrazione vuole invece dimostrare il contrario.

Marco Omizzolo e Roberto Lessio, Zeroviolenza