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6 agosto 2021 – di Marta Bonafoni

Il carcere è uno spazio urbano.

Non so quante volte ci capiti di pensarlo ma è esattamente così: gli istituti di pena sono parte integrante delle città, anche se pressoché ovunque risultano sottratti – espulsi – dalla dimensione vitale metropolitana.

A Roma esistono tre carceri: quello storico di Regina Coeli, ospitato in un edificio della metà del ‘600 divenuto carcere alla fine del 1800, situato tre metri sotto lungotevere della Farnesina.Il carcere di Rebibbia, edificato negli anni ’70 già “fuori” dalla città, a est, in una Roma allora metà agricola metà industriale e oggi preda di cantieri, traffico e capannoni del gioco d’azzardo. Infine l’istituto di pena minorile di Casal del Marmo, eretto anch’esso negli anni ’70 in mezzo alla campagna romana e ancora oggi sommerso nell’Agro romano, nell’estrema periferia nord di Roma.

Tre carceri, tre caratteri distinti e distintivi della città, eppure in un dialogo sottilissimo con essa. Anzi, in una relazione pressoché inesistente con gli abitanti di Roma.

Se è vero che il carcere è spazio pubblico per eccellenza, perché ad esso è affidato il destino di una comunità serena e coesa, è altrettanto vero che del carcere e delle sue connessioni col governo delle città non si occupa praticamente nessuno e trovarne traccia nei programmi elettorali dei candidati sindaciè un’impresa praticamente impossibile.

Ho pensato a questa cosa qualche giorno fa, quando sono stata invitata a portare i saluti istituzionali della Regione Lazio alla discussione della tesi di laurea di Davide, detenuto dell’Alta Sicurezza di Rebibbia.

Sono entrata in carcere tante volte in questi anni da consigliera regionale, ma mai mi era capitato di presenziare all’atto finale di un progetto di alta formazione come quello, in questo caso portato avanti grazie all’università di Tor Vergata.

E’ stata una bellissima emozione, e una lezione ricca di spunti per il lavoro da intraprendere, a partire dalla città che dobbiamo costruire.

L’aula era telematica, fatta eccezione per quella della commissione presieduta dal professor Leonardo Becchetti. Noi eravamo tutti collegati dentro le finestre della piattaforma digitale: accanto a me sullo schermo c’erano alcuni docenti del corso di laurea di Davide, in un’altra finestra la compagna ed il figlio, in un’altra ancora il padre, collegato da casa e palesemente frastornato da quella “cerimonia” così speciale e forse mai neppure immaginata.

A un certo punto l’agente ha fatto entrare Davide e così nella stanza grigia di Rebibbia ha fatto ingresso lui, camicia azzurra, barba curata. Ha prima salutato i suoi genitori “che belli che siete!” e poi il professore.

Davide ha deciso di laurearsi in microeconomia con una tesi sul valore del lavoro in carcere: valore per il detenuto e la sua dignità, valore per la società a cui il detenuto verrà restituito alla fine della pena “perché senza lavoro le recidive sfiorano il 70% dei casi”.Durante la discussione ci ha parlato dei pochi esempi riusciti di avviamento al lavoro di detenuti ed ex detenuti, ma ha insistito ancor di più sui troppi ostacoli che ancora ci sono sulla strada del “recupero del reo”. “Ostacoli burocratici”, e poi – tantissimi – gli ostacoli dettati dal pregiudizio “fuori dal carcere”, da parte della società civile e dal mondo delle aziende.

“Un sistema concepito come chiuso” che quindi fa mille volte più fatica ad entrare in relazione con il “fuori” una volta che si presenta l’opportunità di farlo. Parole semplici e pesanti come pietre per chi quel sistema lo aveva persino immaginato in osmosi con lo spazio esterno nella riforma penitenziaria del 1975.

Alla fine il professor Becchetti ha pronunciato la consueta frase: “Con il potere conferitomi la dichiaro dottore in Economia e Management  col punteggio di 110 punti”. Ha preso anche la lodeDavide.

Una “promozione a pieni voti” che la politica continua a vedere lontanissima quando si tratta delle politiche per il carcere.

A partire dalla relazione che gli istituti possono e debbono avere con la città in cui sorgono.

Espulsi in periferia con la loro devianza, i ristretti sono alla fine dei conti paragonabili ai tanti “ultimi” che in questi anni le metropoli italiane e Roma in primis hanno rigettato sempre più lontano dal centro.

Rendendo le periferie geografiche della città periferie sociali ed esistenziali.

Eppure investire sullo scambio dentro/fuori, immaginare il lavoro come leva principale di questa relazione insieme alla salute, alla casa, alla formazione, alle interazioni col territorio, non sarebbe soltanto la via maestra per rispettare l’articolo 27 della Costituzione, ma anche il modo più certo per restituire senso alla parola “sicurezza”, che è sempre la presa in carico dei bisogni e delle responsabilitàdell’individuo all’interno della comunità in cui vive. Nel caso dei detenuti e delle detenute prima dentro le carceri, quindi nel territorio a cui vengono restituiti.

Oggi le carceri italiane sono tutt’altro: sulla relazione ha prevalso la cultura della separazione e dell’isolamento. Con evidenti svantaggi per tutti i soggetti coinvolti: la popolazione carceraria (fatta di detenuti ma anche di polizia penitenziaria, operatori e dirigenti), il sistema giustizia e l’equilibrio dei quartieri in cui gli istituti sorgono, divenuti paradossalmente cattedrali della paura anziché della rassicurazione sociale.

Così oggi ci capita di vedere e sentire le persone che vivono la condizione detentiva soltanto quando per protestare salgono sui tetti, o battono le sbarre delle finestre, o urlano dalle loro celle. Ma a quel punto la città è già chiusa in casa a difendersi da un’istituzione nata invece “a difesa”. Senza la conoscenza e con la separazione, difficilmente si riuscirà a superare una contraddizione così profonda.

Chi si candida a guidare le città, insiemeagli altri ordini di governo, dovrà avere questo coraggio: il coraggio di scommettere su spazi ibridi dove carcere e libertà si incontrino, per rafforzare la democrazia.

A partire dagli spazi urbani.

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