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10 Apr, 2017

A quando la bonifica del Parco di Centocelle?

Alla vigilia della manifestazione di domani in Campidoglio, promossa dal Coordinamento popolare Parco Archeologico Centocelle Bene Comune, abbiamo depositato oggi in Consiglio regionale un’interrogazione per chiedere al presidente della Giunta e agli assessori competenti quali iniziative intendano prendere nei confronti di Roma Capitale per avviare gli interventi di bonifica delle zone interessate dall’inquinamento, così come previso da un’ordinanza della sindaca Raggi.
Nonostante le ripetute denunce e sollecitazioni degli abitanti di quel quadrante, infatti, l’ordinanza capitolina emanata nel febbraio scorso non è mai stata applicata e tutt’oggi un’ampia zona del Parco è interessata dalla fuoriuscita di emissioni gassose dannose per la salute, provocate dalla combustione dei rifiuti interrati. Alla luce di questo, l’interrogazione chiede inoltre che la Regione Lazio solleciti l’Arpa a compiere ulteriori indagini ambientali, con particolare attenzione al suolo e alle falde acquifere, e indagini epidemiologiche per rassicurare la popolazione residente nelle aree limitrofe al Parco di Centocelle.
Di rischi per la salute parla anche una recente informativa diramata dalla Protezione Civile dove si fa presente che per motivi di ‘sicurezza e incolumità pubblica’ viene predisposta la chiusura di parte del Parco di Centocelle. Ci sembrano elementi sufficienti per chiedere subito un’immediata bonifica.

10 Apr, 2017

Mafie, i sindaci Cinquestelle disertano la Commissione

Venerdì a non presentarsi era stato il sindaco di Civitavecchia Antonio Cozzolino, oggi il forfait all’ultimo momento lo ha dato invece Fabio Fucci sindaco di Pomezia.

La Commissione consiliare speciale sulle infiltrazioni mafiose e sulla criminalità organizzata nel territorio regionale del Lazio sta conducendo da settimane un giro di audizioni con i sindaci del nostro territorio, in particolare quelli che governano Comuni sensibili alle infiltrazioni criminali e all’insediamento mafioso. Agli appuntamenti – finalizzati all’ascolto e ispirati a un atteggiamento di collaborazione interistituzionale – si stanno presentando tutti, sindaci di centrodestra e di centrosinistra anche delle province più lontane da Roma. A disertare la commissione sono stati invece finora, con nostra somma sorpresa, proprio i sindaci di quelle città governate dal Movimento Cinque Stelle.

Probabilmente una coincidenza frutto del caso, ma che – a maggior ragione su un argomento quale quello della legalità – si fa notare parecchio.

A noi non resta che auspicare a questo punto un rapido riallineamento delle agende dei sindaci Cozzolino e Fucci alle convocazioni della commissione regionale antimafia.

10 Apr, 2017

Il “forgotten man”: quando il risentimento diventa populismo

Ezio Mauro, La Repubblica

Come se fossimo entrati all’improvviso dentro un quadro notturno di Hopper, bisogna sbirciare ogni tanto quell’uomo col cappello in testa e il bicchiere tra le mani sul bancone del bar, che è venuto a sedersi sullo sgabello di fronte, da solo sotto la luce al neon. Non parla, rimugina. Si capisce che ha un pezzo robusto di vita alle spalle, ne ha viste tante, per arrivare stanotte fin qui deve aver superato ogni illusione consumando qualsiasi speranza.

Non crede più in nulla, anzi sta in guardia, come se gli avessero tolto qualcosa: potrebbe raccontarlo ma preferisce che ognuno si faccia i fatti suoi, il suo silenzio magari farà sentire in colpa il resto del mondo. Eppure, perché ci sembra di averlo già visto? Perché è la nuova figura politica universale che attraversa l’Occidente dall’America all’Europa, il risentimento che ovunque si mette in proprio, la rabbia sociale che dappertutto si fa politica, l’outsider che infine prende il potere: o forse no, ma a lui basta aver scalciato l’establishment, buttandolo giù dal trono. Il risentimento è appagato: per il resto, si vedrà.

Poiché non abbiamo un nome nuovo, per descrivere quest’ultima creatura della mondializzazione usiamo vecchie categorie che hanno contrassegnato fenomeni antichi, antipolitica, contropolitica, ribellismo, populismo. Ma invece quel che accade è figlio legittimo della postmodernità, anzi del suo Big Bang finale tra la società aperta come mai avevamo conosciuto e la crisi più lunga del secolo.

Ad una ad una, come dopo i terremoti, cadono le vecchie case della politica novecentesca – i partiti – si spalancano i grandi contenitori culturali di tradizioni e di valori, come destra e sinistra, ripiegano e si confondono le stratificazioni sociali che davano identità collettiva, coscienza di classe, appartenenza, con un disegno di società che concedeva una dinamica interna e contemplava il conflitto.

Tra le macerie, cammina lui: il forgotten man, scartato nella crescita, ferito con la crisi, deluso dalla rappresentanza. Poiché ciò che è accaduto nell’ultimo decennio ha fiaccato le istituzioni, ha reso impotenti i governi, ha allontanato gli organismi internazionali e ha finito addirittura per indebolire la democrazia, il forgotten scopre che nell’improvvisa fragilità del sistema la sua rabbia può diventare un surrogato della politica, potente. Non riesce a proporre soluzioni, a disegnare progetti e a farsi governo.

Ma basta per presentare a chiunque il saldo di tutto ciò che non va, per chiedere conto di un mondo fuori controllo, per dare una colpa universale alla classe generale che ha esercitato il comando fino ad oggi, chiudendosi in se stessa per tutelarsi autoriproducendosi. Il risentimento non è in grado di fare una rivoluzione, creando una nuova classe dirigente.

Ma è capace di realizzare la delegittimazione di un potere debole svuotandolo, per poi affidare l’energia degli istinti a chi vuole rappresentarla incarnandola in una performance elettorale. Gli istinti naturalmente non governano: ma questo è un problema di domani, intanto oggi si scalcia.

Che cos’è tutto questo? Marco Revelli, che unisce da anni nei suoi studi la scienza della politica con l’indagine sociale, lo chiama “Populismo 2.0″ nel suo ultimo saggio Einaudi, dando una declinazione modernissima a una storia ricorrente, ogni volta che un leader cerca il cortocircuito del rapporto diretto con i cittadini esaltati a popolo mentre vengono ridotti a folla.

Ma se un tempo si presentava come malattia infantile del meccanismo democratico nascente, una specie di ribellione degli esclusi, oggi il populismo testimonia invece la patologia senile di una democrazia estenuata e svuotata da processi oligarchici, e diventa una rivolta degli inclusi, che avvertono la vacuità di questa inclusione inconcludente.

Il populismo dunque ritorna come sintomo di un indebolimento dell’organismo democratico, una febbre della rappresentanza malata. Abbiamo detto che il fenomeno è ricorrente. Ma oggi per Revelli siamo davanti a un populismo di terza generazione dopo l’esperienza russa dell’Ottocento, il qualunquismo italiano del dopoguerra: alla crisi della democrazia si unisce una crisi sociale che declassa il ceto medio, atomizza l’universo del lavoro, inverte l’ascensore sociale.

Il risultato è una rottura non tanto nel linguaggio politico – come si dice di fronte al politicamente scorretto – ma nel codice di sistema fin qui riconosciuto da maggioranze e opposizioni, con la parlamentarizzazione del consenso. Il parlamento viene anzi contrapposto alla piazza, le istituzioni vengono denunciate come la cattiva politica che le deforma, come se il contenitore fosse responsabile del contenuto e la regola dovesse dividere la colpa con chi la viola, per accrescere la feroce gioia del rogo iconoclasta che brucia senza distinguere.

Una rivolta della plebe, l'”oclocrazia” evocata da Polibio “quando il popolo ambisce alla vendetta”? Ma la massa oggi in movimento, avverte Revelli, è stata a lungo un anello forte del sistema, fattore di consenso e stabilità, altro che plebe. Scopriamo che i vituperati partiti erano “banche dell’ira”, come le chiama Peter Sloterdijk, che la intercettavano, le davano un segnale di riconoscimento e la trasponevano dentro contenitori programmatici e ideologici, convogliandola in un progetto che la decantava nella nobiltà della politica.

Oggi la rabbia sociale è allo stato brado, i nuovi leader politici si limitano ad alimentarla per cavalcarla, pensando che la materia sociale incandescente convenga per radicalità, e dunque meglio usarla come politica primordiale, rinunciando a raffinarla.

Più che a un movimento e tantomeno a un partito, siamo davanti a uno stato d’animo (e infatti parliamo di istinti e risentimenti), a un’espressione senza forma del disagio, alla manifestazione di visibilità degli invisibili: con la retorica del “popolo”, del “basso contro l’alto”, del “tradimento’ da parte delle élite, che mette anche i non poveri nella condizione psicologica di depredati, dunque di offesi, comunque di vittime, di umiliati perché esclusi, ostacolati, impediti e marginalizzati.

È la strutturazione drammaturgia di una nuova forma di conflitto politico-sociale, o addirittura culturale, vissuto come morale, dunque totale. Naturalmente il neopopulismo non è in vitro, perché ha bisogno di un ambiente storico-politico talmente particolare da risultare eccezionale e oggi lo trova nell’emergenza conclamata di tre crisi congiunte, quella economica e del lavoro, quella migratoria, quella del terrorismo jihadista. Un fenomeno da passaggio di secolo, dice Revelli, esattamente come il neoliberismo in cui si specchia simmetricamente, entrambi trasversali, impermeabili e universali.

Ovviamente tutto questo è esploso come un bengala sotto gli occhi impreparati del mondo con l’elezione di Trump, che infatti subito dopo il trionfo non ha ringraziato il Paese, l’establishment o il partito ma esattamente lui, il forgotten man, portandolo a capotavola della sua avventura.

Non solo il popolo delle campagne e gli hillbilly delle terre alte, ma un popolo disperso che per il 75 per cento denuncia il peggioramento della sua vita negli ultimi decenni e tuttavia segue il piffero di un miliardario perché più della differenza sociologica e della diffidenza ideologica pesa la dipendenza “etologica” che Revelli spiega così: un meccanismo del riconoscimento che nasce dai segni elementari, dai gesti, dai suoni e dai colori, dai modi e dalle reazioni che garantiscono nel leader la tenuta dell’odio della base, la sicurezza nell’opposizione al sistema, la comunanza nell’alterità.

A questo punto bisogna cercare i tratti comuni tra Trump e la Brexit (con i beneficiati della new economy che votano in massa per il “remain”, mentre i naufraghi della globalizzazione fanno il contrario), con la Francia di Marine Le Pen che sostituisce un neosciovinismo sociale al nostalgismo vichysta del padre, col muro sovranista di Orban in Ungheria, con gli umori neri dell’AfD in Germania, per affacciarsi infine alla fabbrica italiana di tutti i populismi.

Revelli ne identifica tre, tralasciando la virata di Salvini dall’indipendentismo padano al nazionalismo xenofobo di imitazione lepenista. Quello anticipatore di Berlusconi, una sorta di populismo geneticamente modificato dal peccato originale dell’incrocio con l’azienda, che lo trasforma in eroe teleculturale con un partito istantaneo per una “politica dell’immediato”, coprendo con la vernice moderata un’anima di destra radicale e ideologica.

Quello di Grillo, un cyberpopulismo che, dopo il declino della tv, ibrida la politica con la retorica della rete intervallata dai “V-day” nelle piazze, dove le invettive sovrastano un modello culturale intermittente e balbettante. Quello di Renzi, post-ideologico, post-novecentesco e post-identitario, pencolante tra la tentazione della lotta e la seduzione del governo, col risultato di scolorire i colori della sinistra nell’indistinto democratico di un partito-nazione.

Questo record italiano è il risultato dell'”età del vuoto”, come la chiama Revelli, che porta al grado zero della semplificazione politica, riassumibile in un “vaffa”, una ruspa, la parola rottamazione.

È un vuoto che riguarda soprattutto la sinistra, assimilata in un pensiero unico che non prevede un’obiezione culturale, spingendo la rabbia del forgotten a credere che un’alternativa sia possibile solo fuori dal sistema: mentre in realtà la vera alternativa nasce in questi mesi nella destra populista, che attacca il pensiero liberale, il concetto stesso di Europa e di Occidente.

Ci dev’essere il modo di parlare a quell’uomo che sta nel bar da solo, prima che arrivi Trump a portarselo via. Ci dev’essere un

pensiero democratico in grado di convincere l’operaio col casco giallo davanti a un grattacielo a Londra, che nello schermo della Bbc spiega il Brexit con un semplice gesto della mano: “Quelli lassù hanno votato per restare nella Ue, noi quaggiù per uscire”.

09 Apr, 2017

Commissione antimafia

Giovedì 11 maggio 2017, ore 15.00
Sala Di Carlo

Audizioni in merito alla situazione della sicurezza pubblica, con particolare riferimento alla eventuale presenza di organizzazioni criminali nel territorio comunale.

  • Ore 15: Fabio Fucci, Sindaco Comune di Pomezia
  • Ore 16: Antonio Cozzolino, Sindaco Comune di Civitavecchia

07 Apr, 2017

La scuola la centro è il miglior investimento per la politica

Oggi per la consegna del kit3D della RegioneLazio sono stata all’Istituto Vincenzo Gioberti di Trastevere, il “liceo alberghiero” come dice con sacrosanto orgoglio la dirigente scolastica.

Ho trovato una scuola straordinaria: piena di energia, voglia di fare, sorrisi.
Mille progetti che parlano di inclusione, dell’incontro con gli altri, del recupero della tradizione che si sposa con l’innovazione, col coinvolgimento delle famiglie e di tutto il corpo docente.

I ragazzi di sala, le pasticcere, la cucina, la caffetteria: un posto bello, pensato ogni giorno per consegnare un futuro possibile ai 1200 tra ragazzi e ragazze che lo frequentano.

La forza dell’applauso che ha accolto in aula magna la consegna dei tablet, della stampante e dello scanner 3D stava ad indicare una cosa senza dubbio: una comunità coesa, cooperativa, appassionata.

Giusto allora stare accanto a realtà come queste, per aiutarle a crescere. Fondamentale insistere nel battere lo stesso tasto: la scuola al centro.

E’ il miglior investimento che può fare la buona politica.

07 Apr, 2017

G8 di Genova, violenze a Bolzaneto: il governo ammette le sue colpe

Alberto Puppo, La Repubblica

Il governo italiano ha riconosciuto i propri torti nei confronti di sei cittadini per quanto subito nella caserma di Bolzaneto il 21 e 22 luglio 2001, ai margini del G8 di Genova, e gli verserà 45 mila euro ciascuno per danni morali e materiali e spese processuali. Lo rende noto la Corte europea dei diritti umani in due decisioni in cui «prende atto della risoluzione amichevole tra le parti» e stabilisce di chiudere questi casi.

Il governo italiano, secondo quanto reso noto a Strasburgo, ha raggiunto una ‘risoluzione amichevolè con sei dei 65 cittadini – tra italiani e stranieri – che hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Ricorsi in cui si sostiene che lo Stato italiano ha violato il loro diritto a non essere sottoposti a maltrattamenti e tortura e si denuncia l’inefficacia dell’inchiesta penale sui fatti di Bolzaneto. I sei ricorrenti che hanno accettato l’accordo sono Mauro Alfarano, Alessandra Battista, Marco Bistacchia, Anna De Florio, Gabriella Cinzia Grippaudo e Manuela Tangari.

Con l’accordo, si legge nelle decisioni della Corte, il governo afferma di aver «riconosciuto i casi di maltrattamenti simili a quelli subiti dagli interessati a Bolzaneto come anche l’assenza di leggi adeguate. E si impegna a adottare tutte le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani, compreso l’obbligo di condurre un’indagine efficace e l’esistenza di sanzioni penali per punire i maltrattamenti e gli atti di tortura». Inoltre, nell’accordo il governo si impegna anche «a predisporre corsi di formazione specifici sul rispetto dei diritti umani per gli appartenenti alle forze dell’ordine». E propone di versare ai ricorrenti 45 mila euro ciascuno per danni morali e materiali e per le spese di difesa. In cambio i ricorrenti «rinunciano a ogni altra rivendicazione nei confronti dell’Italia per i fatti all’origine del loro ricorso.

Ma l’accordo non chiude certamente la questione. E, se possibile, alimenta nuove polemiche “Quella che offre lo Stato è una cifretta _ spiega l’avvocato Laura Tartarini, che difende una ventina di persone tra le vittime della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto , che ha accettato chi, tra cui due dei miei assistiti, ha necessità economiche e personali. Per gli altri il ricorso continua». L’avvocata rileva che “sono passati 16 anni e non mi stupisco che alcuni di loro decidano di accettare l’offerta. Ma lo Stato si sta comportando in modo davvero poco consono, tanto che gli accordi in sede civile davanti ai giudici di Genova ancora non si trovano. Questo accordo certo non rappresenta una soddisfazione morale».

Il processo di appello per le violenze di Bolzaneto si era concluso, nel giugno 2013, con sette condanne e quattro assoluzioni. La quinta sezione penale della corte aveva assolto Oronzo Doria, all’epoca colonnello del corpo degli agenti di custodia, e gli agenti Franco, Trascio e Talu. Erano invece state confermate le 7 condanne che erano state inflitte dalla Corte d’Appello di Genova il 5 marzo 2010 nei confronti dell’assistente capo di Pubblica sicurezza Luigi Pigozzi (3 anni e 2 mesi) – che divaricò le dita della mano di un detenuto fino a strappargli la carne – degli agenti di polizia penitenziaria Marcello Mulas e Michele Colucci Sabia (1 anno) e del medico Sonia Sciandra. Per quest’ultima la Cassazione aveva ridotto la pena, assolvendola solo dal reato di minaccia. Pene confermate a un anno per gli ispettori della polizia Matilde Arecco, Mario Turco e Paolo Ubaldi che avevano rinunciato alla prescrizione. La pene erano però quasi integralmente coperte da indulto.

Nei giorni del G8 del 2001, ricostruì il processo, basato anche sulle testimonianze di decine di vittime, oltre 300 persone vennero private della possibilità di incontrare i loro legali, umiliate, picchiate, minacciate. Tra le mura della

caserma risuonarono a più ripresa inni fascisti, molti dei ragazzi vennero costretti a rimanere immobili per ore, le donne subirono violenze fisiche e morali.

La Cassazione aveva anche bocciato il ricorso della procura di Genova che chiedeva di contestare il reato di tortura, cosa che appunto avrebbe evitato l’estizione del reato. Reato che come già era stato evidenziato nella sentenza Diaz non è contemplato dal nostro ordinamento.

06 Apr, 2017

Oggi a Garbatella per chiedere elezioni subito

Parteciperò oggi alla manifestazione prevista alle 16.30 in via Benedetto Croce, per chiedere che si torni presto al voto nell’VIII municipio dopo il disastro della maggioranza 5 stelle. Si tratta di un appuntamento importante, perché il tonfo dei pentastellati a Garbatella è l’ennesima dimostrazione della loro incapacità di governo.

Difficoltà che riflettono l’andamento in tutta Roma, dove interi quartieri sono lasciati al degrado e dove le forze sociali e di volontariato non ottengono alcun riconoscimento. In VIII municipio un’opposizione lucida, competente e compatta ha saputo fare la differenza.

Per questo mi auguro che si torni presto a votare, in un territorio che conserva ancora una forte tradizione di sinistra e dove il compito delle forze democratiche e progressiste è quello di essere pronti a costruire una una coalizione civica e plurale capace di tornare a governare quel territorio.